Rifiutismo

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venerdì 15 febbraio 2008

MARUCHEIN (TERRONE) SOLO ALCUNE PAGINE


MARUCHEIN (TERRONE) ABITAVO IN VIA DEL CARROCCIO (PRIME PAGINE)
Ho deciso di iniziare a scrivere della mia famiglia il quindici settembre del 1996 quando Bossi ha proclamato l'indipendenza della Padania; non ho mai scritto niente in vita mia, ma vedendo il telegiornale mi sono venute le lacrime agli occhi; ho ripensato alla mia famiglia ed ai sacrifici dei miei genitori, alle loro tradizioni abbandonate per dare un avvenire migliore ai figli.
Mi sono anche indignato e offeso, tutti i mali di questo Paese sono stati addebitati ai meridionali. La secessione virtuale di una piccola minoranza nelle regioni del nord non ha nessun valore giuridico e morale, ma sta generando un clima di incomprensione. A me preoccupa soprattutto che i meridionali residenti al sud credano che nelle regioni settentrionali la pensino tutti così; temo che in questa situazione i problemi per l'unità arrivino proprio dal sud e forse è a questo che mirano, provocare la rabbia dei meridionali, cercando di umiliarli e spingerli così ad una rottura traumatica del Paese. Credo che non si rendano nemmeno conto di quello che possono innescare qui al nord dove i meridionali sono quasi numerosi quanto i locali e le famiglie composte da almeno un coniuge meridionale sono altrettanto numerose.
Il legame storico, geografico e di parentela che unisce il sud con il nord è tanto forte che sarà comunque impossibile sradicarlo.
Non posso nemmeno immaginare che diventino stranieri la Valle dei Templi, il mare calabrese ed i bronzi di Riace, Pompei, le canzoni napoletane, i Trulli di Alberobello e Roma, città incantevole che ha civilizzato il mondo.
Con questi ricordi dell'infanzia vorrei fare un omaggio alla Bologna degli anni cinquanta che aveva raggiunto un livello di civiltà ammirevole per quegli anni. Questa splendida e tollerante città che ancora adesso possiede servizi sociali di prim'ordine ed una grande vitalità culturale che ha plasmato il mio carattere fin nel profondo. Ricordo con amore i partigiani che ho conosciuto e che mi raccontavano di quanti di loro sono morti gridando viva l'Italia; quegli uomini di così grande levatura morale mi hanno insegnato ad avere degli ideali dei quali ho sempre cercato di tenere conto nel mio piccolo. Ho provato una grande ammirazione per i vecchi compagni di fabbrica che avevano studiato poco ma possedevano una cultura invidiabile ed amavano la politica, ma anche l'arte, la musica e la storia. E cosa dire dei tanti artisti che ho conosciuto e che mi hanno fatto comprendere ed apprezzare la tradizione pittorica bolognese?
Mi piacerebbe che in questa storia si riconoscessero i meridionali, i figli ed i discendenti di meridionali residenti al nord, che fossero orgogliosi di quei loro parenti che sono partiti nel corso di questo ultimo secolo in cerca di fortuna. Sarei felice inoltre che questa fosse considerata anche una piccola storia bolognese. Con la mia grande fantasia vedo già il grande regista bolognese Pupi Avati che ne ricava un film.
Al 'Villaggio I.N.A. Casa' in pochi anni si era formata una vera comunità di uomini, donne e bambini provenienti da ogni regione italiana, anche dal Veneto, che a quel tempo era economicamente povero; parlavano solo il proprio dialetto e un italiano stentato ma si rispettavano gli uni con gli altri e si capivano: mai ho saputo di episodi di intolleranza e di razzismo. Nei miei ricordi il Villaggio I.N.A. Casa è la versione metropolitana di un quadro naive di quelli idilliaci dove in mezzo ad una natura incontaminata, l'uomo trova un suo equilibrio.
Immagino cosa sarebbe Bologna senza l'arrivo di tante persone dal sud, una città molto più vecchia di adesso e con meno di duecentomila abitanti: quasi ogni bolognese ha ormai parenti di origini meridionali. Gli italiani provenienti dal sud dell'Italia in tutto il mondo superano i quaranta milioni e ovunque siano andati sono riusciti, con il loro lavoro e la loro intelligenza, a raggiungere posizioni rilevanti.
I movimenti delle popolazioni avvenuti nel corso della storia sono incredibili. I Longobardi arrivarono dall'estremo nord e trovarono nel Beneventano un posto migliore per poter vivere. I loro discendenti stanno abbandonando quei posti e rifacendo a ritroso il percorso dei loro antenati.
Spero che un domani un bimbo albanese, arabo, africano, filippino o pakistano possa scrivere una storia come la mia e conservare del luogo che lo ha accolto i miei stessi bei ricordi.


La mia vita di maruchein, la versione bolognese di terrone, iniziò nella primavera del '54, quando, non avendo ancora compiuto cinque anni, mi trasferii con la mia famiglia a Bologna dalla natia Cesine, contrada vicina a San Giorgio del Sannio in provincia di Benevento.
Del viaggio lunghissimo in treno per arrivare a Bologna ho pochi ricordi: le mucche che inspiegabilmente nuotavano nell'Adriatico e mia sorella più piccola, Teresa, che non voleva fare la pipì dentro quel buco, nel gabinetto del treno e diceva: "Non voglio piscià into a chillo buco, voglio farla dietro a reglia (paglia del fienile) a massaria mia".
Andammo ad abitare al Villaggio I.N.A Casa in un appartamento che era stato assegnato a mio padre, che risiedeva a Bologna già da alcuni anni. Fino ad allora aveva alloggiato in una stanza ammobiliata presso una signora in via S. Felice, una strada nel centro della città.
Mio padre era un carabiniere in pensione che, dopo essere stato in servizio in diverse località italiane, era stato assunto in qualità di guardia giurata in un arsenale militare bolognese, in una località che si chiama Prati; si sposo' all'età di ventotto anni, quella minima concessa ai carabinieri per il matrimonio.
Il più grande dei miei fratelli, Antonio, rimase per poco tempo a Bologna perché non trovava lavoro e scelse anche lui di fare il sottufficiale dei carabinieri. Noi fratelli più piccoli eravamo molto orgogliosi di lui; l'aspettavamo alla fermata dell'autobus e lo guardavamo scendere nella sua divisa nera ed eravamo felicissimi quando ci prendeva in braccio; ci portava sempre tanti dolci e cioccolatini e contavamo i giorni che mancavano al suo arrivo. Anche lui, come papà, ha prestato servizio in tantissime regioni italiane.
San Giorgio, il luogo dove sono nato, è incantevole. I leggeri e dolci declivi della campagna beneventana ricordano straordinariamente la Toscana; gli ulivi sono disseminati per tutto il paesaggio e la terra è fertilissima; in ogni fosso che divide le collinette scorre l'acqua anche d'estate.
Dal terreno emergono spesso testimonianze del grande passato di questa terra. Papà raccontava sempre che, quando nel quarantasette iniziò la costruzione della casa, che poi venne quasi completamente rasa al suolo col terremoto dell'ottanta, mentre stava prendendo della sabbia dal piccolo torrente vicino, a circa sei o sette metri di profondità emerse una piccola scultura di terracotta con sembianze umane. La prese in mano domandandosi per un attimo di che cosa si trattasse e come facesse ad essere così in profondità. Poi, preso dalla costruzione, la buttò via a pochi metri di distanza dal ritrovamento. Questa scoperta fatta proprio nel terreno di casa mi ha sempre affascinato.
Da ragazzo stavo delle ore ad interrogare mio padre su forma, dimensioni e posizione del ritrovamento e lui, dopo un po', spazientito, rispondeva con un "nun o saccio" e concludeva così il mio terzo grado.
Torniamo alle cose serie, visto che la mia intenzione è quella di scrivere una storia del tipo di 'Cuore' di De Amicis ( mi ha sempre commosso quel bimbo che dagli Appennini va fino alle Ande a cercare sua madre) oppure come quella della 'Piccola fiammiferaia' che poverina si scaldava dal freddo con il solo calore dei fiammiferi.

Per tradizione noi meridionali mettiamo sempre ai figli il nome dei genitori. Nella nostra famiglia i nomi Antonio ed Emilia derivarono dai nonni materni, Pina (Giuseppa) e Saverio dai nonni paterni; a questo punto si poteva lasciare libero sfogo alla fantasia quello dei nuovi arrivati furono spesso dati da mio fratello maggiore. Quando stava studiando la Divina Commedia venne al mondo un maschio e fu chiamato Dante, mentre quando nacqui io mi fu messo il nome Carlo da Carlo Magno. Degli altri nomi non ne ricordo l'origine.
I miei fratelli più grandi Antonio, Pina, Saverio e Carmine erano tutti biondi e con gli occhi azzurri. Benevento ha una storia antichissima. E' stata un'importante città sannita poi, dopo una guerra durata tre secoli, fu sottomessa a Roma. Quando l'impero romano si dissolse fu occupata dai Longobardi e per diversi secoli rimase la capitale di un loro principato che dominò gran parte dell'Italia meridionale. Questo stesso popolo in quel periodo si installò in Friuli, Lombardia e in ampie zone del territorio italiano.

Probabilmente, ad un certo punto gli spermatozoi mediterranei di mio padre si arrabbiarono e dissero: "E' mai possibile che arrivino primi sempre i nordici!", così si opposero ed ecco che arriva Dante, moro e con gli occhi neri, "Toh beccatevi questo". Quando dovevamo nascere mia sorella Emilia ed io la lotta tra gli spermatozoi si fece più dura: "A te terrone non ti facciamo passare" e gli altri: "Un altro occupante Longobardo? Non ci pensiamo nemmeno". Gli uni impedivano agli altri di fecondare, annullandosi a vicenda e questo durò per diverso tempo (infatti vi fu intervallo maggiore del solito tra una nascita e l'altra) fino a quando si accorsero che così facendo morivano tutti senza ottenere nessun risultato. Decisero quindi di collaborare e raggiunsero un compromesso: probabilmente gli spermatozoi si fusero, come i colori quando con il rosso e il giallo viene fuori l'arancione, così mia sorella Emilia ed io nascemmo castani con gli occhi marroni. Dopo, sempre sulla base dell'accordo raggiunto, arrivò Teresa, che da piccola era tanto scura che mio padre per la prima volta dubitò di mia madre. L'ultima, Pia, (toccava al nord) era ed è così bionda e con gli occhi tanto azzurri, che ancora oggi potrebbe benissimo farsi fotografare con una renna e spacciarsi per svedese, terra d'origine dei Longobardi.
La nonna Giuseppa cercava di scurire con l'olio i capelli biondi dei miei fratelli più grandi, chissà, forse manteneva nei geni l'astio tramandato di generazione in generazione di una parte della popolazione beneventana verso l'occupante Longobardo.
Quando ci trasferimmo eravamo otto fratelli, la nona nacque l'anno dopo a Bologna.

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