Rifiutismo

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domenica 3 febbraio 2008

"PORTA COLLINA, L'ULTIMA BATTAGLIA DEI SANNITI"


Porta Collina
L’ultima battaglia dei Sanniti
Sterminio e diaspora di un popolo fiero e marziale
che contese a Roma l’egemonia sull’Italia

Con questo breve libro scritto tra storia e fantasia ho voluto fare un omaggio ai Sanniti di ieri e di oggi: un omaggio ad un popolo, il mio, che contrariamente agli Etruschi è relegato in poche righe sui libri di storia. Spero che qualche studioso riesca a far uscire dall’oblio quel grande popolo antico che amava la libertà più di ogni altra cosa. Gaio Papio Mutilo, Ponzio Telesino, Marco Lamponio, Guitto di Capua sono personaggi storici veri, che hanno sacrificato la vita per cercare di mantenere la libertà dei popoli sanniti. Anche se da 53 anni dei 58 vissuti, risiedo a Bologna, sento ancora molto forte il legame con la mia terra natale e sono orgoglioso di discendere da un popolo così fiero e coraggioso. Ancora oggi, molti di noi, sono costretti, anche se per motivi diversi, ad andarsene dalle terre natie. Siamo dispersi per il mondo in mille rivoli, come gli antichi. Quando, per scrivere il libro, mi sono documentato sugli antichi insediamenti dei Sanniti, ho capito perchè gli abitanti di quasi tutto il sud d’Italia, dell'Abruzzo, del Molise e del basso Lazio, anche quando parlano in italiano hanno un accento e un timbro di voce simile. Tutti questi popoli del sud e del centro Italia mantengono nella loro voce, senza saperlo, un legame dovuto ad un’unica stirpe “sannita”, ed a una lingua comune “l’osco”.




Gaio Papio Mutilo si trovava con tutto l’esercito sannita sotto le porte di Roma e aspettava l’assalto finale da parte dei Romani. I nemici credevano fosse morto subito dopo la Guerra Sociale che si era conclusa pochi anni prima. All’inizio di quella guerra, tutti i popoli italici del centro e del sud si erano coalizzati contro i Romani che, avevano preso d’assedio Asculum che si era ribellata; il loro console Pompeo Strabone era stato respinto subendo pesanti perdite. I Sanniti avevano ammirato la valorosa tribù dei Marzi che aveva immediatamente impugnato le armi in appoggio degli ascolani. Tutti i popoli italici erano stanchi dell’oppressore romano che obbligava i loro giovani più valorosi ad arruolarsi nel suo esercito. E contrariamente ad altri popoli vinti, ai Sanniti e a tutti i popoli di lingua osca, i Romani non volevano concedere la cittadinanza, che comportava una serie di agevolazioni e privilegi tra cui il diritto di poter mandare i propri rappresentanti al senato di Roma. Ma quello che non sopportavano gli italici erano i coloni latini che facevano da padroni nelle loro terre. Molte antiche città sannite come Malventum avevano ormai numerosi coloni latini che riservavano per loro tutti i posti di comando.
I Marsi avevano tenuto testa da soli ai Romani che erano impreparati ad una ribellione così estesa. In poco tempo anche altre tribù italiche impugnarono le armi contro Roma. Erano molti i popoli che l’avevano fatto nella Guerra Sociale: in poco tempo i popoli italici ribelli erano diventati dodici.
Con Papio Mutilo c’era il giovane letterato sannita-pentro Mamarkis che era accorso da Aesernia per farsi raccontare dal comandante, per tramandarli, i motivi che avevano portato il suo popolo ad opporsi ancora una volta a Roma.
Eravamo come loro servitori nella nostra terra - disse Mutilo con rabbia-. Io Gaio Papio Mutilo e i Sanniti, non aspettavamo incitamenti per accorrere subito al fianco dei Marsi, il nostro popolo non aveva esitato un solo istante ad allearsi con loro. Da tanto tempo aspettavamo l’occasione per cercare di ritrovare la libertà perduta. I nostri antenati non avevano potuto più opporsi da soli allo strapotere di Roma che, con colonie latine, aveva occupato buona parte del nostro territorio. Loro festeggiano ancora le guerre vinte contro di noi che dicono siano avvenute nel quinto secolo dalla fondazione della loro città. Stiamo vivendo già nel settimo secolo dalla nascita di Roma, come è possibile che provino ancora tanto odio per noi?
Noi sanniti speravamo che, assieme agli altri popoli che si erano ribellati, saremmo riusciti a riconquistare le terre che appartenevano ai nostri avi.
In tutte le terre a sud di Roma ci sono loro colonie. Controllano anche le terre degli Umbri, degli Etruschi e dei Galli. L’antico Calor, il nostro fiume sacro, che scorreva interamente nei nostri territori è ormai, lungo il suo corso, disseminato di loro insediamenti. I Romani chiamano noi Sanniti con tanti nomi diversi; dicono che siamo tanti popoli diversi per dividerci. Ma metà dei popoli che avevano impugnato le armi contro di loro nella Guerra Sociale parlano l’osco, l’antica lingua, e ci riconosciamo discendenti di una comune stirpe. Noi continuiamo a parliamo l’osco, ma voi giovani siete costretti ad imparare anche la lingua dei nostri occupanti. La federazione dei popoli italici avrebbe potuto sconfiggere i Romani se quella guerra fosse stata breve: anch’io ero convinto che sarebbe stata sicuramente vinta se fossimo riusciti a coinvolgere anche gli Umbri e gli Etruschi, ma con loro non avevamo continuità territoriale. Roma era riuscita ancora una volta ad applicare il “divide et impera”. Il generale Vettio Scatone con diecimila marsi, aveva marciato su Roma e aveva sconfitto separatamente ognuno dei consoli romani. Si era fermato perché una città così sterminata era impossibile da conquistare con solo i Marsi.
Alla fine dell’estate, i Romani, avevano messo Gaio Mario come comandante in capo. Quell’anno gli Dei non erano stati benevoli con noi; il freddo era stato così intenso che aveva resa impossibile qualsiasi operazione militare. Prima dell’inverno sembrava ormai che la vittoria fosse vicina, ma dopo, non riuscimmo più a vincere una battaglia importante. Anche il giusto Gaio Mario, che nutriva simpatie per i popoli italici e per la plebe, si era dimostrato implacabile nel difendere Roma. I nemici erano riusciti a mobilitare tutti i suoi giovani; un giovane oratore di nome Cicerone, mobilitava la folla romana in favore della patria in pericolo; era riuscito a far arruolare, assieme a lui come ufficiali, anche tutti gli oziosi giovani della nobiltà romana.
In quella guerra i Pentri e le altre tribù sannite mi avevano raffigurato come “Embratur” (imperatore) e voluto a capo di tutti gli eserciti che si opponevano a Roma: io mi sentii onorato e orgoglioso quando la federazione italica mi dedicò una moneta con la mia effige. Ora sento tutto il peso per aver accettato di portare il mio popolo alla distruzione. La Guerra Sociale durò molti anni. La maggioranza dei soldati romani, i più valorosi, erano reclutati tra i popoli ribelli e nel periodo di relativa pace, prima di quella guerra, erano tutti tornati tra la nostra gente. Ai nostri occhi, senza i nostri giovani, erano debolissimi, ma non era così. I giovani romani erano diventati, in poco tempo, anche loro soldati formidabili. Noi italici dovevamo assolutamente vincere prima dell’arrivo dell’inverno. Non dare loro il tempo di riorganizzarsi nella pausa invernale e di far arrivare dalle colonie d’oltre mare gli alimenti per nutrire le legioni nemiche. I nostri anziani non si ricordavano di un inverno così freddo e lungo. Fino all’arrivo della dea Fluusai era impossibile qualsiasi movimento di eserciti: la dea che protegge i germogli, quella primavera, aveva ritardato le fioriture per i freddo che anche nella sua stagione era ancora molto intenso Ma le navi romane, anche col freddo potevano solcare i mari. I nostri nemici erano così riusciti a portare sul suolo italico le legioni stanziate in Africa e in Hispania. Dopo quell’inverno eravamo quasi sconfitti nelle regioni a nord di Roma. Solo i Marsi riuscivano ancora ad infliggere dure perdite ai Romani: il console Porcio Catane era stato ucciso mentre cercava di prendere d’assalto un loro accampamento. Un nostro simpatizzante, di lingua osca, chiamato Tazio, aveva sobillato le truppe nemiche dicendo che solo con gli italici ci sarebbe stato la vera libertà, che tutti i popoli ribelli sarebbero stati liberi se avessimo vinto noi. Che i vincitori sarebbero stati uniti in una confederazione di popoli uguali: non ci sarebbe più stato un popolo italico che dominava sugli altri. Poi anche contro i Marsi i Romani cominciarono ad ottenere una vittoria dietro l’altra - ricordò amareggiato Mutilo che, ogni tanto interrompeva le sue parole e osservava l’orizzonte lontano, verso la parte dove doveva arrivare il nemico. Mi ricordo che il legatus di Pompeo Strabone, Supilcio Galba, completò la distruzione dei Vestini, poi sconfisse i Marrucini. E’ da quel momento - disse Mutilo - che la situazione si deteriorò a tal punto che noi insorti fummo costretti a trasferire la nostra capitale a Bovianum. Finì così il sogno di avere Corfinium ribattezzata da tutti noi “Italia” come capitale di tutti gli italici. Per la solenne occasione avevamo anche coniato una moneta d’oro in lingua osca, dedicata alla nuova capitale. La moneta, in lingua osca, con il conio “Italia” circolava in tutti i territori degli insorti e veniva utilizzata più dei sesterzi. Solo nella terra dei Sanniti i Romani continuavano ad avere difficoltà. Le roccaforti lucane resistevano ad ogni attacco e anche in Apulia i Romani arrancavano. Nelle terre dei Frentani, erano solo riusciti a devastare i territori intorno a Larinum. Poi all’improvviso, con l’aiuto degli Dei, che solo quella volta ci furono benigni, la sorte sembrò cambiare un nostro favore. Mitridate re del Ponto, stanco dell’aggressività di Nicodemo di Bitinia, che era un alleato dei Romani, l’attaccò e sterminò 70000 tra Romani e Italici delle colonie asiatiche. Silla dovette andare a combattere contro Mitridate, ma lasciò a Roma, dopo averla occupata e conquistata militarmente, un suo fedele per controllare la situazione. Gaio Mario, sconfitto da Silla era stato costretto a scappare in Africa. Mai un romano aveva osato attaccare la loro città e su questo Gaio Mario fece leva quando tornò dall’Africa a Roma, dopo essersi alleato con noi. Gaio Mario era il massimo rappresentante del partito della plebe e non era insensibile alle richieste degli italici; era stato lui a far finire quella guerra e a concedere la cittadinanza romana a noi e a tutti gli altri popoli rivoltosi. Finì così la Guerra Sociale, ma allora, essendo Roma in una posizione di debolezza, dovevamo costringere Gaio Mario a imprigionare tutti i simpatizzanti di Silla, e mandare contro di lui le sue e le nostre truppe appena sbarcava sul suolo italico. Noi sanniti potevamo da soli diventare arbitri della situazione, anche se indeboliti eravamo ancora molto forti: senza il nostro aiuto, Gaio Mario non sarebbe mai riuscito a prendere il potere nella capitale dell’impero. Ma anche noi eravamo stanchi di quella guerra, i nostri campi erano ormai diventati incolti dopo cinque anni di distruzioni reciproche con i Romani. Non vedevamo l’ora di tornare a casa dalle nostre famiglie. A quei tempi sembrò una grande vittoria aver strappato a Roma la cittadinanza, potevamo così far valere i nostri diritti e mandare al senato romano i rappresentanti dei nostri popoli. Eravamo anche riusciti a tenere per noi tutto il bottino conquistato con la guerra. L’esercito dei rivoltosi italici, dopo il patto con Gaio Mario, aveva smobilitato. Solo il giovanissimo Ponzio Telesino e pochi altri dicevano che non bisognava fidarsi, che Silla prima o poi sarebbe tornato per farci la guerra, che, non avrebbe riconosciuto quello che il suo nemico Gaio Mario ci aveva concesso. Anche in Bitinia andava dicendo che quando sarebbe tornato in Italia avrebbe attaccato noi sanniti.

A Cornato, il nostro più grande indovino, avevo chiesto di predire il futuro del nostro popolo dopo il trattato di pace con i Romani. Mi aveva ammonito dicendomi che nelle viscere della capra sacrificata per la profezia, c’era la fine dei Sanniti. Che l’osco, la nostra antica lingua, non sarebbe più stata parlata nel Sannio e su tutto il suolo italico, se non fossimo riusciti a fermare Silla. Mi aveva scongiurato di continuare ad impugnare le armi e di attaccare Silla appena scendeva dalle navi che tornavano dalla Bitinia. Nessuno aveva voluto dare importanza alle parole del grande indovino, neppure io. Poter tornare finalmente nelle nostre famiglie era più forte di qualsiasi profezia. Dopo il trattato di pace con Gaio Mario avevamo lasciato solo delle piccole guarnigioni a presidiare i nostri territori invece di rimanere tutti in armi come ci aveva consigliato Cornato.
Cornato mi raccontò che rivedeva in sogno ogni notte Gavio Ponzio il comandante che sconfisse i Romani nella valle caudina: Gavio Ponzio gli ripeteva che era lui il responsabile delle sconfitte del suo popolo perchè, invece di uccidere tutti i Romani, li liberò, dopo averli solo umiliati facendoli passare sotto le forche. Si maledice ogni notte per aver lasciato libero il loro esercito: pensava che mai più i Romani avrebbero osato attaccare i Sanniti. Diceva che lui era diventato superbo per essere stato il solo ad umiliare un intero esercito consolare e non aveva saputo valutare il grande orgoglio dei suoi nemici. Gavio Ponzio urlava in sogno a Cornato che non doveva accontentarsi del loro passaggio nudi sotto il giogo, con solo l’obbligo d’ inchinarsi davanti ai suoi soldati. Che non averli uccisi tutti aveva comportato la schiavitù del suo popolo. Cornato, con le lacrime agli occhi mi ripeteva di non essere anche questa volta ingenui come i nostri antenati. A Roma rispose Mamarkis, dove ho studiato, ridono ancora oggi dei nostri avi; loro si vantano ancora di quell’inganno, di aver fatto finta di aver accettato un trattato di pace per non essere uccisi e poi, solo poco tempo dopo l’umiliazione delle Forche Caudine, tornare nelle nostre terre con l’esercito vinto e con un altro ancora più numeroso. E, dopo averci sconfitti, derisi e umiliati, si presero quasi tutte le nostre terre più fertili. A noi lasciarono solo le parti più alte e brulle. E’ dai quei tempi che il nostro nutrimento dobbiamo ricavarlo quasi solo dai nostri animali. E’ dall’umiliazione che hanno subito alle Forche caudine che i Romani odiano i Sanniti più di ogni altro popolo.
Ridono anche della nostra sfortuna quando ricordano che in quelle antiche guerre contro di loro, non riuscendo a sconfiggerli da soli, i nostri antenati mandarono in Asia, da Alessandro il grande condottiero, degli ambasciatori per chiedergli di trasferire le sue truppe in Italia in nostro aiuto. Se Alessandro avesse fatto ciò, con l’appoggio dei Sanniti, i Romani sarebbero stati sconfitti e noi saremmo ancora un popolo libero. Alessandro odiava i Romani che considerava un ostacolo alla sua espansione verso nord. I Romani dicevano che lui e il suo popolo erano di scarsa intelligenza perché avevano occhi azzurri e capelli chiari. Questa loro presunta superiorità indignava il giovane Alessandro. Ma gli dei anche allora non ci furono benevoli - disse a bassa voce Mamarkis. Il giovane re - continuò - era sfuggito alla morte in battaglia innumerevoli volte, ma gli dei lo fecero morire all’improvviso nel fiore degli anni. Anche allora, gli dei sembrava congiurassero contro di noi. Gli antichi romani hanno scritto nei loro testi che proprio nel giorno stesso in cui Alessandro andò incontro alla morte, i nostri ambasciatori arrivarono a Babilonia. Con gli ambasciatori, era andato a Babilonia lo stesso Gavio Ponzio. Udita la morte del re, i nostri antenati, dopo aver compianto la morte di Alessandro, ritornarono mesti in Italia. A Roma, mi deridevano dicendomi che non si vincono le guerre con l’aiuto dei morti; che anche Alessandro era morto per la paura di doverli affrontare. Ed io, dovevo stare zitto e subire le offese che facevano al nostro popolo. Mutilo stringeva la mascella dalla rabbia mentre Mamarkis parlava.
Noi abbiamo sempre avuto nemici gli dei disse Mutilo; subito dopo la fine della guerra Gaio Mario morì. Suo figlio adottivo Mario il Giovane, aveva le sue stesse idee e difendeva, come il padre, la plebe e gli altri popoli non latini, ma non ne aveva l’esperienza e la tempra e anche molti plebei non ne riconoscevano l’autorità.
Pensando che contro i Romani non avremmo più fatto guerre mandammo i nostri migliori giovani, come te, a studiare a Roma per imparare la loro lingua e le loro leggi. Ormai, col diritto di cittadinanza, ci consideravamo parte integrante dello stato romano. Anche se noi sanniti continuammo ad essere autonomi nei nostri territori e a mantenere un nostro esercito pronto a mobilitarsi se Silla ci avesse attaccato.
Questi ultimi anni per il nostro popolo furono anni di pace, ci eravamo dimenticati di Silla e delle sue minacce. Solo i sicari che continuava a mandarmi dalla Bitinia per uccidermi mi facevano pensare che prima o poi saremmo stati costretti a riprendere le armi. Ma poi, pensavo che a Roma comandava il figlio di Gaio Mario, che il partito della plebe era fortissimo e che Silla stava subendo forti perdite nella guerra contro Mitridate. Che, anche se era appoggiato dai ricchi aristocratici romani, se avesse osato attaccarci, noi e le legioni rimaste sul suolo italico l’avremmo sconfitto in poco tempo. E io, per non essere assassinato dai suoi sicari, per tutti ero morto di malattia nella città di Nola. Solo alcuni, tra i miei fedelissimi sapevano che non era vero. Adesso con questa guerra civile tra Romani, scatenata da Silla – continuò Mutilo - noi siamo stati costretti a mobilitarci a fianco del democratico Mario il Giovane. Ma ci è stato fatale aspettare troppo tempo prima di schierarci coi democratici, eravamo riluttanti a combattere per una parte di loro, anche se era quella che ci aveva permesso di ottenere la cittadinanza romana. Anche i democratici fanno parte di un popolo che ci ha oppressi per secoli e che solo per convenienza ci hanno aiutato. Il figlio adottivo di Gaio Mario è un giovane giusto e generoso, ma ancora troppo inesperto per condurre una guerra contro un uomo astuto e spietato come Silla. Silla, anche nella Guerra Sociale perdonava i prigionieri delle altre tribù, ma non i sanniti che, se catturati vivi, venivano immediatamente uccisi. E’ implacabile soprattutto con noi. Ripete a tutti che Roma non sarebbe mai stata sicura fin quando fosse esistito uno stato sannita organizzato :il sangue sannita si doveva estinguere, così Roma non sarebbe più stata in pericolo. Anche i plebei romani dicono che con la nostra tenacità nel ribellarci mettiamo sempre in pericolo la sopravvivenza di Roma. Io avevo voluto dimenticare la profezia di Cornato: dovevo ricordare che Silla l’aveva giurato, che quando sarebbe tornato in Italia avrebbe raso al suolo il Sannio e fatto uccidere tutti i suoi abitanti, compresi donne e bambini. Non potevo assistere impotente alla fine del mio popolo ed è per questo, anche se anziano, che ho accettato di rimettermi a capo degli eserciti sanniti. Qui, sotto queste antichissime mura c’è anche Ponzio Telesino di Telesia, per tutti è il comandante di tutti i sanniti. Discende dal comandante che aveva vinto i Romani in quelle che chiamano ancora con rabbia “Forche Caudine”. Ponzio Telesino è orgoglioso d’essere discendente del glorioso Gavio Ponzio: di portare lo stesso cognome di chi aveva sconfitto i Romani. Telesiono, come me, non ha esitato un attimo a prendere le armi, anche se è ancora molto giovane: è stato proprio lui a chiedermi di mettermi a capo di tutti i popoli sanniti in questa guerra. E anche lui, se gli dei non l’aiuteranno, sarà ucciso in questa battaglia finale contro i nostri secolari nemici.
Se fosse morto anche suo fratello Octavius, assediato nella roccaforte di Preaneste, sarebbe finita la stirpe più eroica del nostro popolo.
I combattimenti di notte sono sempre stati interrotti, ma Silla, con la sua ferocia, questa volta ci ha mandato a dire che non avrebbe permesso nessuna tregua, avrebbe continuato la battaglia fino a che l’ultimo dei resistenti non sarebbe stato ucciso o fatto prigioniero. Credendo di terrorizzarci - raccontò ancora Mutilo - infilano le teste dei caduti sulle lance urlandoci d’arrenderci se non volevamo fare la stessa fine. Ma così fanno aumentare la nostra rabbia e la determinazione a combattere fino alla fine. - E a questo punto Mutilo urlò con rabbia - Noi moriremo da eroi, ma i Romani cadranno numerosi come i fili d’erba che le pecore brucano nei prati. Sono venuti a combattere con noi anche i gladiatori sanniti di Roma e loro tremano al pensiero di doverli affrontare. Appena hanno saputo del nostro assalto a Roma, alcuni per combattere con noi sono fuggiti anche dalla scuola gladiatoria di Capua. Sono stanchi di uccidere o farsi uccidere nelle arene, per divertire i loro oppressori.
Mamarkis, voleva raccogliere anche dagli altri generali la loro testimonianza su quell’ultima battaglia. Avrebbe tramandato alle nuove generazioni le ragioni dei popoli sanniti che combattevano questa guerra. Mutilo chiamò gli altri generali e disse loro - i letterati latini scrivono sempre le cose peggiori dei nemici vinti, che i Romani sono giusti, costretti a combattere guerre non volute: questo giovane letterato pentro vuole conoscere le vostre ragioni per scolpirle-. Ma tu Mamarkis, non dovrai essere ucciso in battaglia, se vuoi tramandare le nostre gesta, quando le ombre della notte ti saranno amiche, fuggirai da solo prima della battaglia. Ti rifugerai in terre amiche e scriverai, nella nostra lingua, quanto hai sentito dire da noi prima della battaglia. Nascondi le tue tavole scritte in un posto inaccessibile, dove i Romani non possano trovarle. Se moriremo, e questo avverrà sicuramente, la tua testimonianza rimarrà per quelli che verranno; dovranno sapere che stiamo combattendo per la nostra libertà.
Mutilo spiegò a tutti che la situazione era disperata. Che per i combattenti sanniti quello sarebbe stato probabilmente l’ultimo giorno nel mondo dei vivi. Le legioni fedeli a Silla e quelle che avevano tradito Mario il Giovane, avrebbero sterminato tutto il loro esercito. Nessuno sarebbe sopravvissuto sotto quella porta che dà sulle colline. Quelle mura, tanto care ai Romani, fatte costruire dal re Servio Tullio, sarebbero state la nostra ultima difesa.
Noi – continuò orgoglioso- combatteremo fino a quando le nostre braccia avranno la forza di reggere lo scudo e il gladio.
Mutilo e tutti i generali furono assaliti da furore e da esaltazione collettiva quando tutti insieme alzarono le armi al cielo e giurarono di combattere fino a quando i loro polmoni avrebbero respirato. - Poi disse - noi non vogliamo nessuna clemenza, vogliamo combattere fino all’ultimo uomo per la nostra libertà. I Romani pagheranno duramente la loro vittoria. E poi, questa volta non ci faremo ingannare ; io non farò come Gavio Ponzio, non accetterò mai di trattare con loro - disse con rabbia Ponzio Telesino -. Anche quando passarono sotto le forche caudine firmarono un trattato di pace con noi e poi, subito dopo, il senato romano diede l’ordine di tornarci ad attaccare con tutte le loro forze.
Come ben sapete - continuò Mutilo - Silla fino a pochi giorni fa, non sapeva che anch’io ero tra di voi. E’ stata una spia, infiltrato dal traditore Magio tra le nostre fila, a dirgli che ero ancora vivo e che combattevo, in questa guerra tra Romani, in favore di Mario il Giovane. Mi hanno riferito che Silla, quando ha saputo che ero vivo, ha urlato una maledizione contro gli dei e i suoi occhi sono diventati rossi di sangue dall’ira. E quando assaggerà la mia spada morirà con gli occhi sbarrati dallo stupore di avermi ancora di fronte. Ma prima di morire dovrà strisciare ai miei piedi e dirmi che fine hanno fatto i miei figli.
I generali pentri e caudini, con in testa Ponzio Telesino, i lucani guidati da Marco Lamponio e volontari irpini e apuli ascoltavano Mutilo nel più assoluto silenzio. I volontari avevano partecipato anche alla Guerra Sociale ed erano accorsi anche contro Silla nella Guerra Civile. Sapevano che se avesse vinto lui, per loro non ci sarebbe più stato scampo. Sarebbero stati catturati e uccisi nelle loro città passate sotto il controllo romano. Le tribù dei volontari non avevano preso ufficialmente le armi contro Roma e per questo non potevano appoggiare ufficialmente i Sanniti: i capi dei loro popoli però li avevano armati segretamente.
Quando Silla era tornato in Italia dalla Bitinia, per non aver contro tutti i popoli ribelli della Guerra Sociale, aveva promesso che avrebbe riconosciuto quanto avevano ottenuto. Che anche la cittadinanza romana concessa alle loro tribù dal suo nemico Gaio Mario sarebbe stata rispettata; aveva anche firmato un patto con tutti i rappresentanti dei popoli ribelli. Ma non con i Sanniti. Anche i volontari di tutte le tribù sabelle non si fidavano di Silla e delle sue promesse. Mutilo con voce ferma continuò dicendo che nella tremenda battaglia di Sacriportus, Mario il Giovane, l’alleato romano, aveva perso una battaglia importante a causa del tradimento di molte delle sue legioni. Ma non uno dei Sanniti guidati da Octavius, il fratello di Telesino, lo ha fatto.
Mutilo disse che anche a Sacriportus i nostri soldati dopo essere stati catturati erano stati tutti uccisi. Anche il valoroso Guitto di Capua, che era accorso con molti volontari campani di stirpe sannita, era stato trucidato con tutti i suoi uomini una volta finita la battaglia.
Mutilo disse ancora - Mario il Giovane con Octavius, sono riusciti con molti soldati a sfuggire alla cattura e si sono rifugiati nella città amica di Preaneste, ma è stato circondato dalle legioni di Silla. Anche in Etruria le legioni di Pompeo sono state costrette alla resa dopo che molte legioni plebee avevano tradito la loro causa.
Qui, sotto le porte di Roma, aspettiamo Silla che arriverà all’imbrunire. Questa mattina ha mandato alcuni emissari per chiederci di deporre le armi, in cambio, ha mandato a dire che saremmo stati graziati.
Io, come vi ho già detto, dei Romani non mi fido, ma se qualcuno di voi vuole arrendersi può farlo. Mutilo, con grande soddisfazione vide che, anche dopo quella notizia, nessuno voleva deporre le armi. Poi con voce solenne disse che occorreva mettere al sicuro gli abitanti inermi delle tribù sannite che avevano impugnato le armi. I bambini e le donne sopravvissuti avrebbero così potuto evitare la fine della nostra stirpe. Propongo che cento guerrieri – disse - i più forti del nostro popolo, scelti tra i 10000 della Legio Linteata, lascino il campo di battaglia prima dello scontro, per mettere al sicuro il nostro popolo dall’ira di Silla. Voi sapete che questa legione è stata ricostruita frettolosamente quando Silla è sbarcato a Brindisorum.

1 commento:

angelo ha detto...

è sempre un piacere leggere la Storia dei nostri avi che, troppo spesso, viene dimenticata, o meglio, non viene insegnata, nemmeno in territorio Sannita!!! e questa la grave deficienza della didattica scolastica.... lo scollamento con il territorio, con le tradizioni, con la Storia, tutto ciò favorisce la mancanza di personalità storica da parte delle nuove generazioni e conseguentemente l'attaccamento alle proprie radici