IL PITTO PREFAZIONE MARIA FALCONE
La prima volta che incontrai Carlo Soricelli rimasi molto colpita dalla personalità di quest’artista operaio, che con poche parole e con tanta semplicità ti faceva intuire la sensibilità del suo animo.
Credo che anche lui sia rimasto toccato dalla mia vicenda umana e me lo dimostrò con molta discrezione, regalandomi la piccola scultura di “un barbone con le ali”. Ed un libro da lui scritto “Marucheìn”.
Quel gesto affettuoso mi commosse molto e fece nascere in me la curiosità di conoscere meglio quest’artista bolognese, ma di origini meridionali come me.
Nei giorni seguenti lessi con piacere il suo libro e potei costatare che le impressioni suscitatemi dal nostro breve incontro collimavano perfettamente con quelle procuratemi dalla lettura del racconto della sua vita.
Non sono una critica letteraria, non posso quindi azzardare un giudizio artistico, ma posso senz’altro affermare che la genuinità dei sentimenti e la fortissima carica di umanità, che nasce dalla lettura di questo libro, rassereni il lettore riportandolo in una realtà quasi bucolica, dove i buoni sentimenti prevalgono sulle aberrazioni della vita moderna.
Ho accettato quindi di scrivere questa breve prefazione alla continuazione del suo libro, perché credo che artisti come Soricelli dovrebbero essere meglio conosciuti ed apprezzati per il messaggio di solidarietà e per il travaglio umano vissuto con grande determinazione.
Leggendo questo autore si trovano quelli che dovrebbero essere i valori fondamentali di ogni società civile, la solidarietà, la libertà, la giustizia sociale, valori in cui, forse, molti non credono più, ma non dimentichiamo che per garantire alla società moderna tali ideali, molti dei nostri uomini migliori sono morti.
Maria Falcone
A metà degli anni Sessanta si cominciarono a vedere i primi capelloni. In quel periodo andava di moda Celentano che con le sue canzoni faceva impazzire le ragazze ed i ragazzi; erano anche gli anni di Rita Pavone e Gianni Morandi, adolescenti acqua e sapone. E’ con i Beatles però che la moda mutò incredibilmente; camminavi per strada e vedevi gente con i capelli lunghi, stivaletti con tacchi alti e giubbotti militari. Per quell’epoca era veramente una cosa sconvolgente; sembrava di vedere tanti marziani. Quando Peppino, Picciuna ed io vedemmo passare in bicicletta Franchino e Faina con i capelli lunghi fino alle spalle ci venne istintivo gridare ‘busoni’. Poi, dopo alcuni mesi, anche noi portavamo capelli e vestiti in quel modo.
In quel periodo andai a lavorare in un ristorante a Finale Emilia di proprietà di alcuni amici di mio fratello Saverio che erano d’origine siciliana. Partii che era maggio. Servivo ai tavoli e dovevo portare i pantaloni neri e la camicia bianca; i padroni mi dicevano sempre di tagliarmi i capelli, ma nelle grandi città andavano lunghi ed io volevo essere come tutti i miei amici. Alloggiavo in una camera, mi alzavo presto di mattina e rimanevo tutto il giorno al ristorante. Avevo proprio pochissimo tempo da dedicarmi ma appena ne avevo un po’ a disposizione passeggiavo per il paese. La gente mi guardava stranita per i miei capelli lunghi, della stessa lunghezza dei ragazzi di Liverpool, e per come mi abbigliavo; al collo indossavo una catena grossa come quella che si monta sull’automobile quando c’è la neve, che pesava tantissimo a cui avevo attaccato un medaglione con su scritto “chi non lavora non fa l’amore”, i miei pantaloni erano attillati e gli stivaletti avevano il tacco alto.Il paese era piccolo ed io ero uno che veniva‘ da fuori’ e che quindi si notava subito. Le ragazzine mi guardavano, ma sia per la mia timidezza sia per il poco tempo sia avevo a disposizione, non ne conobbi neanche una. Anche lì, come del resto a Bologna, i ragazzi un po' più grandi ascoltavano ancora Elvis Presly, Little Tony e Rita Pavone che pochi anni prima aveva avuto un gran successo con quella canzone che faceva “Perché, perché, la domenica mi lasci sempre sola per andare a vedere la partita di pallone”. Sembrava già preistoria. Una delle cose che mi piacevano di più era quando mi mandava fuori a comprare qualcosa perché così rompevo la monotonia di quelle giornate passate tra tavoli e cucina; andavo a grattugiare dei pezzi di formaggio dal droghiere; la forma era dentro un sacchetto di quella carta color cartone che adesso non si usa più; nel tragitto spesso staccavo qualche scaglia che mangiavo con gusto.
Ritornando a Finale dopo essere stato a Bologna ed aver visto i miei amici, sentivo una grande nostalgia e avevo voglia di tornare a casa. Oltretutto, se ricordo bene, non mi pagavano nemmeno, mi davano solo vitto e alloggio. Passato agosto cominciavo ad averne abbastanza e decisi all’improvviso di tornare a Bologna. Presi la mia roba e la infilai in valigia, salutai i padroni che mi guardavano stupiti e mi apprestai a tornare a casa. Non sapevo nemmeno gli orari della corriera e aspettai più di un’ora prima che ne arrivasse una. Mi ricordo che chiusi male la valigia e questa si aprì mentre stavo camminando spargendo tutti i vestiti per la strada.
Avevo appena compiuto sedici anni ed ero a casa a non far niente. Mio padre mi mandò con mia madre e mio fratello Carmine a San Giorgio del Sannio, il mio paese natio in provincia di Benevento, dove tutti gli anni mio padre e mia madre piantavano il tabacco nel terreno ereditato da nonno Saverio. Fu un bel periodo quello, molto spensierato; a parte qualche dipinto non facevo niente, dormivo e stavo all’aria aperta. Mi ricordo che il tabacco da un’altezza di circa mezzo metro diventò enorme in pochissimo tempo, con foglie che sembravano dei ventagli come quelli che gli schiavi sventolavano davanti al capo tribù.
Ogni tanto provavo a fumarmi quel tabacco che coltivavamo, ma non essendo ancora conciato, era così forte e amaro che dopo poche tirate non ce la facevo più. In quel periodo avevo cominciato a fumare di nascosto da mio padre e con la complicità di mia madre (mio padre era a Bologna) compravo cinque nazionali tutti i giorni dal tabaccaio di San Giorgio del Sannio. Mio padre arrivò dopo qualche tempo in licenza e una sera, dopo aver mangiato, andai dietro casa a fumarmi beatamente la mia sigaretta; ero convinto che non se ne sarebbe mai accorto. Alcuni giorni dopo chiesi un po’ di soldi a mio padre e lui molto tranquillamente mi chiese se avevo finito le sigarette. Mi diede cinquecento lire; sapeva già tutto da diverso tempo, ma non mi aveva mai rimproverato o fatto capire che lo sapeva.
Una sera, quando mio padre era già ripartito per Bologna, perdemmo la chiave della casa vecchia dove tenevamo il tabacco raccolto; andammo a cercarla con delle fiaccole, rifacendo tutto il percorso, ma era come cercare un ago in un pagliaio. Dato che la porta sarebbe rimasta aperta ci toccò dormire dentro quella stanza per sorvegliare il prezioso tabacco che avevamo già raccolto.
Mi ricordo che il tabacco veniva raccolto e ammucchiato in una stanza e di sera s’infilavano le enormi foglie con un grande ago legato a dello spago. Si facevano così delle file lunghe che erano appese al sole a seccare.
Non so se fu perché ero nel cosiddetto “periodo dello sviluppo” o a causa del cambiamento d’aria, ma tornai a Bologna più alto di venti centimetri acquistati in soli tre mesi.
Quella sera eravamo andati ad una festa di paese a Ponte Ronca dove c’era anche un’esposizione di quadri. Per colpa mia Angelo ed io rimanemmo a piedi perché avevo perso tempo a vedere la mostra di pittura. Decidemmo quindi di metterci in cammino per tornare al Villaggio. Era già mezzanotte. Angelo era molto piccolo, ma coraggioso e quando passammo vicino ad un cimitero mi convinse a darci un’occhiata dentro per vedere i famosi fuochi fatui, quelle fiammelle che si dice vengano su dalla terra nei cimiteri. La visione di quelle luci accese, quei fiori e tutte quelle lapidi non è che mi piacesse molto. All’improvviso sentimmo un rumore sinistro provenire da un angolo e scappammo con una velocità impressionante; facemmo gli otto chilometri che ci separavano dal Villaggio tutti di corsa. Quando passavamo correndo e ansimando per la campagna, tutti i cani della zona si misero ad abbaiare, ci spaventammo sempre di più perché pensavamo che oltre a qualche morto, c’inseguissero anche dei cane feroci. Arrivammo al Villaggio stremati.
Roberto, il fidanzato di mia sorella, aveva un amico che dipingeva e si mise a fare qualche quadro anche lui. Quando vidi quei dipinti riscattò in me la grande passione per l’arte che avevo sopita. Comprai pennelli e colori e mi misi subito a dipingere; da allora non smisi più.
Le mie prime opere erano indirizzate soprattutto alle ragazze per fare bella figura e presentarmi a loro come pittore. Facevo soprattutto vasi di fiori che regolarmente donavo a quelle che mi piacevano. Ricordo un bellissimo mazzo di fiori che regalai ad una bionda, una ragazza alta, con i capelli lunghi e lisci della quale non ricordo nemmeno il nome; mi disse che il quadro l’avrebbe conservato per tutta la vita tra le sue cose più care.
In quel periodo mi affascinava molto De Chirico con la sua pittura Metafisica. Quei manichini, quelle Piazze d’Italia, erano proprio affascinanti. Allora, però, la mia massima preoccupazione era di cercare di conoscere più ragazze possibile. L’arte mi piaceva proprio, ma le ragazze occupavano tutti i miei pensieri.
Intorno ai diciotto anni andai a lavorare con mio fratello Saverio in una fabbrica nella zona industriale di Crespellano. Con noi c’era anche il mio inseparabile amico Picciuna. Una mattina mio fratello investì con la macchina un passerotto che gli aveva attraversato la strada. Picciuna rimproverò mio fratello, gli disse che era colpa sua perché il passerotto veniva da destra.
Il padrone della fabbrica aveva un pollaio con delle galline che facevano le uova. Picciuna ogni mattina ne prendeva un paio, le bucava, le beveva e poi le rimetteva accortamente nel nido. Il padrone s’incazzava sempre con Ugo, il capo officina, perché pensava fosse lui il colpevole.
Comunque quel lavoro in fabbrica mi stancava molto e la sera raramente stavo in casa a dipingere.
Mio padre mi convinse ad andare a fare il militare di leva nei carabinieri. Lui era stato più di vent’anni nell’arma ed anche mio fratello Antonio, il più grande, era un maresciallo dei carabinieri. Andai a Fossano a fare il CAR, poi mi mandarono alla Caserma Cernaia di Torino. Mi fecero la famosa puntura al petto, ma dopo solo due giorni di riposo cominciarono a farci marciare. Era la fine di maggio, il caldo era insopportabile ed eravamo vestiti con la divisa invernale. Ricordo che ci facevano marciare tutto il giorno e passavamo tutti sudati da un posto al sole ad una zona all’ombra con corrente.
Una sera cominciai a sentire caldo, sentivo un dolore lancinante al petto tutte le volte che respiravo. Chiamai il piantone che mi fece dare qualcosa in infermeria. La mattina dopo marcai visita. Il medico mi mandò subito all’ospedale militare: m’ero preso una grave broncopolmonite. Mi tennero dentro per quindici giorni. Durante la degenza mi vennero a trovare mia sorella Pina e successivamente mio padre. Poi mi mandarono a casa in convalescenza. Ero stremato sia fisicamente che moralmente, subii un forte deperimento organico e arrivai a pesare cinquanta chili. A causa della malattia non potevo più fare l’ allievo carabiniere e mi trasferirono nell’esercito. Mi mandarono alcuni giorni in un posto che non ricordo, poi mi spedirono in Fanteria presso il Quartier Generale della Divisione Cremona di Torino. Lavoravo in un ufficio ed il mio superiore era il colonnello Ardizzoia, un uomo piccolo, buono e simpatico. Quando doveva mandarmi in qualche posto mi diceva “Soricelli vai a ...”ed io ero già partito, poi lui sorrideva e mi diceva “ma dove corri se non ti ho ancora detto dove devi andare?”. Tutti i pomeriggi stavo in ufficio da solo a sorvegliare non so bene che cosa. C’era un salotto, stendevo dei giornali per non sporcare le poltrone e mi facevo delle gran belle dormite. Un giorno arrivò silenzioso il colonnello, aprì di colpo la porta e non disse niente. Scattai sull’attenti e mi aspettai chissà quale punizione. Lui mi guardò per un attimo in silenzio poi mi sorrise e andò via. In quel periodo andavo spesso a casa e chiesi per iscritto un periodo di licenza. Dopo essermi fatto beccare in quel modo mi aspettavo che il colonnello non mi avrebbe accontentato; invece mi sorrise e firmò subito. Mi disse “Soricelli, hai chiesto la licenza il 28-29-30 febbraio vai pure a casa in questi giorni”. Un giorno vidi arrivare in ufficio una vecchia contadina vedova con il figlio che stava male, quel ragazzo mi fece vedere che sputava sangue. Mi commossi ed ebbi l’ardire di andare a disturbare il colonnello per raccontargli della situazione di quel ragazzo; temevo che si sarebbe arrabbiato molto invece, prese a cuore la questione e s’interessò per farlo congedare. La bontà a volte la trovi inaspettatamente in persone come il colonnello, un uomo tutto di un pezzo, con un grande cuore. Al colonnello piacevano molto i miei disegni e quando mi congedai ne accettò volentieri alcuni per ricordo.
Tornato a casa dai militari, andai a lavorare con mio fratello Saverio alle Chiavette Unificate, una fabbrica di Casalecchio di Reno. Presi la patente e cominciai a frequentare le scuole serali per diventare disegnatore meccanico. Era molto faticoso andarci dopo aver lavorato tutto il giorno e spesso soffrivo di emicranie. Quando mi recavo a scuola avevo l’abitudine di lasciare l’automobile aperta, una vecchia Giulia, tanto pensavo che non me l’avrebbe fregata nessuno. Una sera mi giocarono un brutto scherzo. Finita la lezione feci per andare in macchina ma non riuscii a salire: l’avevano riempita con massi di venti - trenta chili. La sera dopo capii subito chi era stato perché i responsabili non riuscivano a trattenere il riso. Mi arrabbiai molto, ma mi servì da lezione. Da quella sera era difficile che la dimentichi aperta. Con me di sera frequentava la scuola un certo Fantini che nel tempo libero dipingeva. Con lui che faceva paesaggi scambiai alcuni quadri.
In quel periodo conobbi mia moglie in una sala da ballo a Tavernelle. Fu un amore a prima vista, era una ragazza molto bella. Quella sera dovevo andare a mangiare la pizza con un’altra ragazza, ma quando vidi Floriana, la invitai a ballare un lento poi decisi di passare la serata con lei. Usciti dalla sala da ballo andammo a mangiare delle focacce in un bar ancora aperto. Nel tragitto in automobile pensai, “adesso provo a vedere se ci sta”; così allungai la mia mano verso la sua e l’accarezzai, lei non disse niente, prese la mia mano e la strinse. Cominciammo a frequentarci e dopo circa due anni, quando ne avevamo ventiquattro, ci sposammo.
Nelle lunghe serate invernali dopo il matrimonio cominciò a riprendermi la voglia di dipingere, cosa che avevo fatto raramente nell’ultimo periodo. Nel frattempo nacque mia figlia Elisa. L’ostetrica, dalla conformazione della pancia a punta, era sicura che sarebbe nato un maschio. Mi ricordo che appena nata era molto carina e con grandi occhi azzurri; le infermiere della Maternità venivano a vederla. Il giorno che andai a prendere Floriana ed Elisa dall’ospedale ebbi una brutta sorpresa. Avevo lasciato l’automobile davanti alla maternità, per non affaticare troppo mia moglie, ma quando scesi, l’automobile non c’era più, l’avevano portata via i vigili. Portai a casa i miei cari in taxi e poi andai a ritirare l’automobile.
Floriana è sempre stata una grande compagna e una buona madre; non mi ha mai fatto pesare la mia passione per l’arte. Si è accollata in silenzio tutto il carico famigliare e senza il suo aiuto non avrei mai concluso niente di buono. Sono uno che spesso si dimentica anche le cose più importanti; ho sempre la testa tra le nuvole ad inseguire non so quali sogni. Alcune volte, come capita a tutti gli uomini, mi sono capitate delle occasioni a cui ho sempre cercato di resistere. Non volevo andarmi ad impegolare in cose che avrebbero potuto darle dei dispiaceri. Quando ci siamo sposati ho pensato che lei era la donna della mia vita e che non l’avrei mai tradita. Floriana mi ha ricambiato con un amore poco appariscente, con pochi slanci, ma molto profondo. Spesso litighiamo a causa dei figli, ma dopo pochi minuti c’è sempre passato tutto. A mia moglie devo grande riconoscenza e non farò mai abbastanza per ricompersarla di tutto quello che mi ha dato da quando stiamo insieme. Con una piccolo pensiero, che non gli ho mai detto, ho cercato di ringraziarla; molti dei miei fiori, quelle sculture che tutti di dicono siano dolci e poetiche, le ho firmate col suo nome e cognome.
Dopo il matrimonio la passione per l’arte diventò sempre più forte. I primi quadri da sposato li feci sull’inquinamento. Nel ‘72 ne avevo già fatti alcuni con questa tematica; ricordo un Nettuno che usciva dal mare con in mano un grande pesce morto. Allora dipingevo alberi scheletrici e spogli, li umanizzavo come se fossero delle persone perché volevo far capire che se l’uomo non trova un suo equilibrio con la natura, rischia di diventare ‘uno scheletro’ come i miei alberi. Allora non esistevano i Verdi e la coscienza ecologica della gente era praticamente inesistente.
Feci la mia prima mostra nel 1976 in una galleria di via Indipendenza che adesso non c’è più. In quel periodo vidi dei dipinti di Gino Covili e di Ligabue, così mi innamorai della pittura Naive e cominciai a fare i primi quadri con figure umane. Potevo parlare del mio mondo, quello della Fabbrica, che conoscevo molto bene. C’è da premettere che solitamente all’inaugurazione di una mostra si offre un rinfresco. In una delle mie prime esposizioni, nel 1976, durante l’inaugurazione arrivarono degli ospiti inaspettati, quel giorno la Galleria era colma di gente che guardava le opere ed il tavolo era pieno di paste, salatini e bottiglie di vino. Di lì a poco avremmo fatto il rinfresco. All’improvviso arrivarono una decina di giovani Hippies (i figli dei fiori) vestiti con i loro abiti colorati. Fecero finta di guardare per un attimo i dipinti e poi si diressero verso la tavola dove c’erano cibi e bibite: in pochi minuti si mangiarono tutto. Io rimasi di stucco e non seppi cosa dire. Quando il gallerista se ne accorse li mandò fuori, ma ormai non c’era più rimasto niente.
In quel periodo avevo anche cambiato lavoro. Erano anni di forte impegno e la classe operaia era al centro di tutta la vita sociale. Nei miei impieghi precedenti avevo conosciuto alcuni lavoratori più anziani che mi avevano fatto crescere e maturare. In quegli anni non esisteva il qualunquismo di adesso ed i lavoratori e il sindacato volevano trasformare la nostra società. Cominciavo a prendere coscienza delle mie condizioni di lavoratore e entrai nel Consiglio di Fabbrica; ero poco incline a compromessi e vedevo il mio impegno nel sindacato come una missione. Il proprietario, anche se mi apprezzava molto per il mio lavoro di responsabile del collaudo, non vedeva di buon occhio il mio impegno sindacale. In quel periodo ottenemmo diverse cose: trenta ore di lavoro pagate come quaranta per i turnisti, un’indennità molto buona per i trasfertisti, grembiuli e magliette estivi ed invernali gratuitamente, forti aumenti di stipendio e medici che venivano a controllare fumi e rumori; inoltre facemmo mettere gli aspiratori su tutte le macchine. Il proprietario aveva una personalità molto complessa; da un lato aveva atteggiamenti sconcertanti s’impuntava su cose che ritenevo banali, ma alcune volte era proprio lui che proponeva cose veramente innovative per quel periodo. Quando col tempo mi sono liberato delle mie intemperanze giovanili ho capito ed apprezzato quella persona. Tanti anni dopo essermi licenziato mi disse che quel periodo fu molto difficile per l’azienda. Lui insistette molto perché non andassi via dall’azienda; se avessi capito o immaginato quelle difficoltà e quanto mi apprezzasse di sicuro non l’avrei fatto. Mi congratulai anche con lui per aver fatto diventare quella piccola azienda con pochi dipendenti una delle più importanti e prestigiose ditte del bolognese.
Nel 1977 cominciò per me un periodo nero. Mia moglie, Elisa ed io partimmo per andare in ferie nella mia terra natale dove si trovavano per le vacanze anche i miei genitori. Con noi c’erano anche mia sorella con sua figlia. Durante il viaggio, fatti circa centocinquanta chilometri in autostrada, chiesi a mia sorella se mi dava il cambio a guidare, io ero stanco perché ero partito subito dopo aver finito di lavorare. Mia sorella andò alla guida dell’automobile, faceva circa i centoventi all’ora, quando all’improvviso scoppiò un pneumatico. L’automobile cominciò a sbandare, tagliammo la strada ad una corriera e urtammo contro il guard rail finendo nel letto dell’Arno. Quando aprii gli occhi vidi mia sorella in un bagno di sangue e mia moglie che teneva stretta mia nipote. Non vedevo più mia figlia; con l’urto il vetro di dietro si era staccato ed Elisa era stata sbalzata fuori. Per nostra fortuna la trovammo praticamente incolume su dei rovi ad una decina di metri, aveva solo qualche graffio. Io avevo qualche ferita superficiale in varie parti del corpo, ma niente di grave e mia moglie un taglietto nel sedere. Mia sorella stette in coma per qualche giorno, poi si riprese: dovettero darle decine di punti in varie parti del corpo. L’automobile nuova fu distrutta completamente. Nella sfortuna c’era andata anche bene perché nei circa trenta metri di scarpata l’automobile non si capovolse, andò a schiantarsi contro un albero che ci impedì di finire nel fiume.
Quell’incidente non ci voleva proprio, era capitato in un momento di grandi difficoltà. Ero già molto stanco a causa dell’impegno che mettevo sul lavoro come responsabile del collaudo, per l’impegno sindacale e quello artistico.
Cominciai ad avere paura ad andare in autostrada ed in tangenziale ed anche adesso, quando devo superare un camion o una corriera, ho un po' di timore. Dopo circa un anno dall’incidente, mentre dipingevo, sentii come una specie di scossa dentro il braccio sinistro. In breve tempo quel disturbo strano mi prese per ogni piccolo movimento. Andai al Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore dove mi fecero delle lastre al braccio e videro che avevo dei pezzi di vetro vicini ad un nervo; quando lo muovevo i vetri si spostavano e ci prendevano contro. Mi mandarono all’Ospedale Rizzoli e mi operarono; stetti più di tre ore sotto i ferri.
Nel 1978 dipingevo figure umane e giravo per Bologna munito di una Polaroid con la quale fotografavo quello che mi interessava. Sui viali vidi una persona che diventò ricorrente nelle mie opere; si chiamava Renato e faceva il raccoglitore di cartoni. Aveva un bell’aspetto ed era molto ben piantato per essere così anziano; girava con un carretto a pedali e raccoglieva tutti gli scatoloni che trovava per strada. In quel momento capii che gli anziani e poveri sarebbero diventati sempre più numerosi.
Da quel personaggio incontrato casualmente nacque tutte una serie di opere di pittura e scultura.
Già dai primi giorni di giugno, quell’enorme pioppo che si trovava all’entrata del magazzino della fabbrica faceva quella che qui a Bologna chiamiamo ‘plomma’; questa s’infilava dappertutto; entrava in fabbrica, andava sui pezzi, dentro agli uffici, nei gabinetti. Quei piumini svolazzanti erano fastidiosissimi, provocavano prurito e starnuti. Nel cortile della fabbrica ve ne era già uno strato alto alcuni centimetri; tutti i giorni per diverso tempo lo ammucchiavamo, ma dopo poco tornava tutto bianco. L’autista ed io avemmo un’idea geniale: “perché invece di spazzarla in continuazione non gli diamo fuoco?” Detto e fatto. Prendemmo due fogli di giornali arrotolati a mo’ di fiaccola e l’accendemmo. Cominciammo a dare fuoco a quell’infernale strato di piumini che si muovevano in continuazione col vento. Dopo qualche attimo, col terrore negli occhi, vedemmo che le fiamme cominciavano a propagarsi dappertutto proprio a causa di quei piumini; prendemmo delle scope per cercare di spegnerlo, ma non fu possibile. Una lingua di fuoco partì dietro lo stabilimento e arrivò dove era accatastato il truciolo di magnesio. Il magnesio è una lega leggerissima e viene usato al posto dell’alluminio per questa caratteristica; è un materiale che bisogna lavorare con molti accorgimenti; basta che si riscaldi un po' per incendiarsi. Una volta acceso è impossibile spegnerlo, su di esso, l’acqua aumenta il vigore del fuoco. Quando le fiamme arrivarono a quel materiale in un attimo raggiunsero i dieci metri. Tutti i dipendenti uscirono dallo stabilimento per cercare di spegnere il fuoco, ma non ci fu niente da fare. Io ero terrorizzato; proprio di fianco c’era la caldaia con dentro il gasolio. Per fortuna l’incendio, una volta esaurito il magnesio, riuscimmo a spegnerlo con facilità. In quel periodo in fabbrica mi chiamavano Ligabue, per fortuna non conoscevano il pittore Nerone.
Quella mostra nel 1978 fu particolare. Pagai per esporre in una Galleria della provincia quel giorno, nel pomeriggio avrei avuto l’inaugurazione e di mattina decisi di fare un salto a vedere l’allestimento. Entrai nel locale ma subito mi si avvicinò il gallerista minacciandomi con un martello e dicendomi d’andar via. Non mi presentai nemmeno all’inaugurazione, finita l’esposizione ritirai le mie opere ed in quella galleria diretta da uno ‘schizzato’ non ci andai più.
In quel periodo tutti i compagni di lavoro venivano da me per i loro problemi ed ero diventato anche l’interlocutore principale del proprietario. A casa poi c’era l’arte che prendeva tutto il mio tempo libero: mi stancavo molto perché facevo anche opere di grandi dimensioni. (Avevo abitato per circa un anno in Via Donizzetti e dopo ci eravamo trasferiti in via del Milliario sempre a Bologna.) Per fortuna la mia compagna era molto comprensiva. Credeva molto in quello che stavo facendo e capiva che per me l’arte era di vitale importanza. Ricordo che in quella casa di Via del Milliario, per dipingere i quadri di grandi dimensioni, fissavo la tela direttamente sul muro. Per poter lavorare in quella stanza non facemmo nemmeno la cameretta per la bimba; aveva appena un anno e potevamo tenerla in camera con noi. Dal 1975 al 1980 dipinsi tutti i giorni. Sentivo addosso un nervosismo che mi costringeva a non staccare mai dai quadri. Se non dipingevo, dopo un po' mi assaliva un senso di colpa che mi faceva star male. Sentivo che non stavo bene, che chiedevo troppo alle mie forze e che avrei avuto il bisogno di staccare per riposarmi e cercare di riflettere, ma non ce la facevo; dipingere era una specie di droga, una malattia. In quel periodo la quantità di opere prodotte fu notevole. M’ispiravo al mondo del lavoro. Con i quadri continuavo ad occuparmi della fabbrica che mi condizionava anche nell’arte. Dipingevo pendolari, ambienti di lavoro pieni di fumo, infortuni, assemblee, pause del pranzo e scioperi. Mi piacevano anche gli animali, facevo lotte di galli, cani abbandonati e tristi, anziani soli che mangiavano pasti frugali, malati negli ospedali lasciati soli e malati di mente. Tutto ciò che mi sembrava riguardasse problemi sociali li portavo sulle tele. Alla fine degli anni Settanta dipingevo già anche senza dimora e emarginati espulsi dalla nostra società. Allora il fenomeno dei senza dimora era molto circoscritto e marginale ma capivo che sarebbe diventato esplosivo con il passare degli anni. I responsabili del giornale Piazza Grande nato agli inizi degli anni Novanta, scritto e diretto dai Senza Dimora di Bologna, si stupirono molto quando videro che trattavo quel tema da tantissimo tempo. Pochi anni fa feci con quelli di Piazza Grande una mostra a Palazzo d’Accursio di Bologna che ebbe un gran successo di pubblico. Il tema principale era proprio quello dell’emarginazione.
Quella bella signora con a fianco il marito, noto industriale bolognese, a tutte le esposizioni acquistava molte opere. Anche a quella mostra disse: prendo questo, questo e questo, indicando con l’indice i dipinti che voleva comprare senza nemmeno conoscerne il prezzo. Stavo parlando con altri pittori che esponevano, ci passò di fianco e si fermò vicino a noi; guardò prima i quadri poi me, lo fece per diverse volte. In quel momento non capii, ma quando la bella signora andò via, gli altri pittori mi diedero del coglione.
Con gli occhi mi chiedeva di indicarle quali erano le mie opere per acquistarle ed eventualmente conoscermi.
In quel periodo dormivo pochissime ore per notte ed ero sempre più magro ed esaurito, ma continuavo a fare il delegato ed a dipingere. Ero diventato una specie di automa che si occupava solo di lavoro e pittura, trascuravo la mia famiglia. Mia figlia cresceva con un padre che c’era solo fisicamente e che aveva la testa sempre a pensare altro.
Ero una specie di bomba innescata pronta ad esplodere alla prima seria difficoltà. Licenziarono mia moglie che lavorava in una agenzia investigativa con sede a Torino. Nel frattempo però era rimasta incinta di Lorenzo perché avevamo deciso di dare un fratellino ad Elisa. Ricorremmo al tribunale e, mentre tutte le altre colleghe furono licenziate, la ditta fu costretta a riassumere mia moglie perché aspettava un bambino. Quando Floriana era incinta di otto mesi arrivò una notizia per me tragica: mia madre era morta improvvisamente d’infarto a Benevento. Noi fratelli ci preparammo per partire, ma io non ne ebbi il coraggio. Stavo già male per la notizia di mia madre, mia moglie era incinta e stava quasi per partorire, ero esaurito ed avevo una paura terribile di andare in autostrada. Decisi di non partire, stavo troppo male. Mio padre a Benevento non voleva far chiudere la bara, diceva che anch’io dovevo vedere mia madre morta.
Una mia sorella disse che avrei avuto il rimorso per tutta la vita per non essere andato giù a vedere per l’ultima volta nostra madre. Lei non poteva capire che stavo malissimo e che soffrivo almeno quanto lei.
La morte di mia madre fu per me la goccia che fece traboccare il vaso: cominciai a soffrire di ansia e d’angoscia.
Come tutti i figli più piccoli avevo con mia madre un rapporto particolare, bastava uno sguardo per capirci. Mia madre era una forte donna meridionale; aveva messo al mondo nove figli. Io sono il settimo di nove e l’ultimo dei cinque maschi. Quando ero ragazzino riusciva sempre, anche se i soldi erano pochi, a farmi comprare quello che desideravo, riusciva sempre, anche se i soldi erano pochi a convincere mio padre a comprarmi quello che desideravo. Quando tornava ‘su’ a noi portava sempre dei prodotti della nostra terra natale.
La morte di mia madre fu talmente improvvisa e inaspettata che rimasi scioccato per diverso tempo. Eravamo una famiglia povera, ma dignitosa. La mamma di spostava continuamente da Bologna nel meridione e viceversa. Cara e dolce madre, pochi mesi prima di morire, seppur già avanti con gli anni, voleva piantare il tabacco e raccoglierlo, per darmi una mano nell’acquisto dell’appartamento.
A causa dall’angoscia, cominciai a prendere moltissimi psicofarmaci che però dopo un po' di tempo non facevano più effetto. Iniziai ad avere problemi anche sul lavoro. Mi venivano degli attacchi d’ansia e di panico e dovevo scappare a casa o all’ospedale. In quel periodo stavo spesso in malattia. Passavo notti e notti senza dormire. Ero molto depresso e più di una volta pensai di farla finita. Spesso alla sera, correvo al Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore. Mi sentivo malissimo; il cuore mi batteva tanto forte che sembrava mi scoppiasse: l’ansia e la depressione erano compagni terrificanti. All’ospedale, mi davano qualche calmante, poi mi rispedivano a casa. I medici, non consideravano l’esaurimento nervoso una malattia. Le poche opere che facevo in quel periodo erano terribili: rispecchiavano il mio stato d’animo. Uno dei quadri più riuscito in quel periodo è quello di un moribondo lasciato solo in una stanza di un ospedale. Anche adesso, quando espongo quell’opera, chi la guarda rimane turbato. sul lavoro andava male, cominciavano a mandarmi dei richiami scritti alla più piccola infrazione del contratto: bastava un ritardo, una dimenticanza di marcatura, il certificato che arrivava con un giorno di ritardo. La maggioranza dei compagni di lavoro era solidale con me e cercavano di darmi una mano a superare i miei disturbi, mentre alcuni, che avevo aiutato in passato erano indifferenti.
Mia madre morì in aprile e Lorenzo nacque il mese dopo; quando vidi quel bimbo lungo e magro che mi guardava provai una grande gioia, ma anche una forte angoscia. Quando si è esauriti come lo ero io ti preoccupi anche dei tuoi familiari. Pensavo di non riuscire più a star bene e loro avevano bisogno di me. Andai da tantissimi medici; neurologi, psichiatri, psicanalisti, con la mutua ed a pagamento. Ma la mia condizione non migliorava, anzi, peggiorava. Ormai all’Ospedale Maggiore mi conoscevano bene, c’ero già andato diverse volte.
Un pomeriggio ero al Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore, anche quel giorno avevo dei violenti attacchi d’ansia. Mi mancava il fiato ed il cuore andava ai duecento. Ero in attesa che mi chiamassero dentro per la visita. Come al solito i medici non davano eccessivo peso ai miei disturbi e mi facevano aspettare delle ore. Mentre aspettavo, vidi arrivare su di una lettiga un vecchio artista, molto noto a Bologna che conoscevo di fama. Stava molto male ed era pallidissimo. Con lui c’era una giovane e bellissima ragazza che lo accarezzava e cercava di tranquillizzarlo. Lui le diceva, “sei un angelo, ti lascerò tutte le mie opere”.
Una sera era di guardia una dottoressa, le spiegai la mia situazione e chiesi di essere ricoverato. Lei era molto titubante perché diceva che quando si comincia ad essere ricoverati per queste cose spesso s’inizia una tragica esistenza che ti porta ad uscire ed entrare in continuazione dall’ospedale. Decise di mandarmi all’ospedale. Io non avevo mai dato segni di squilibri mentali, ma mi sentivo stremato per l’ansia e l’angoscia che non mi abbandonava più. La cosa terribile di quei posti è che ti mettevano insieme a della gente che ha dei gravi disturbi psichici. Pensavo, se mi mettono insieme a loro, sono anch’io così, e di conseguenza la depressione e l’ansia aumentavano. Le camerate erano enormi, in ognuna di quelle ci stavano decine di malati. C’erano alcolizzati, schizofrenici, anziani soli, malati che avevano l’unica colpa di non aver nessuno e di non essere autosufficienti. Di notte, sembrava di essere in un girone infernale; alcuni urlavano, altri si alzavano e camminavano, altri ancora si lamentavano tutta la notte. Io avevo una gran paura, sia perché ormai pensavo d’essere come loro, sia mi potessero far del male. Per fortuna m’imbottivano di psicofarmaci che mi facevano riposare e dormire per qualche ora. Dopo qualche giorno, cominciai a star meglio, mia moglie, anche se aveva i due bimbi piccoli veniva tutti i giorni a trovarmi. Nell’ospedale c’era anche una scuola di pittura per i pazienti, che potevano così distrarsi. Cominciai a frequentarla e feci anche alcune opere che rimasero là; erano di malati di mente che avevo visto in quel posto. A dirigere la scuola c’era un infermiere che quando mi vide mi mise subito a disposizione pennelli e colori; a Bologna ero già abbastanza conosciuto e fu felice di avermi tra i suoi “ospiti”. L’infermiere dipingeva anche lui, faceva delle opere veramente allucinanti, che angosciavano anche più delle mie. Stetti dentro circa una decina di giorni poi mi mandarono a casa, stavo meglio, però sentivo di non essere ancora guarito.
Cominciò un periodo altalenante fatto di momenti in cui stavo bene e altri in cui stavo male. Per riuscire ad uscire da quella situazione che mi creava notevoli disagi, provai con tutto quello che mi proponevano o che, sentivo avesse dato dei benefici ad altri con i miei stessi disturbi. Provai con l’agopuntura, la medicina alternativa, andai da psichiatri, da neurologi, da maghi e guaritori. Andai anche a fare delle visite a pagamento da medici che mi avevano curato dove ero stato ricoverato. Quando mi visitavano a pagamento, erano sempre più gentili e disponibili.
La seconda volta che stetti molto male ebbi la fortuna di essere ricoverato in una clinica privata convenzionata con la mutua. La clinica si chiama Villa Olimpia ed è sui colli bolognesi. L’ambiente era tutto un’altra cosa rispetto a quello sui viali di Bologna. Ogni paziente aveva una sua camera, al massimo c’erano due pazienti per stanza. I medici erano gentili e disponibili e avevano rispetto per gli ammalati. Passati alcuni giorni, mi diedero anche dei permessi giornalieri per andare a casa. Mia moglie mi veniva a prendere poi mi riportava. Sentivo che cominciavo a star meglio, anche se la cura era abbastanza forte. Un medico che si chiamava Grieco era anche un appassionato d’arte e volle comprarmi alcune opere. Visto che era molto gentile e bravo gliele avrei anche regalate. Mi curarono per una quindicina di giorni poi mi mandarono a casa. Stavo molto meglio, anche se sentivo che c’era ancora qualcosa che mi sfuggiva e mi turbava. Non riuscivo a capire i motivi di quel mio malessere persistente che avevo accumulato in tutti quegli anni e che mi spingeva a dipingere in continuazione. Non mi ero più dato tregua e alzavo, con opere sempre più impegnative, lo scontro con me stesso. Sembrava sempre che l’opera che stavo realizzando in quel momento fosse l’ultima e la più importante della mia vita.
Per fortuna, ebbi un incontro fortunato con una persona che aveva avuto i miei stessi problemi e che aveva avuto un notevole miglioramento della sua condizione; m’indicò il nome di uno psicologo che l’aveva curata. Andai a parlare con lui e iniziai a fare delle sedute psicoanalitiche. Cominciai a capire i meccanismi inconsci che mi avevano spinto ad agire in quel modo. Per una persona che ha dei disturbi come i miei è molto importante capirne l’origine, altrimenti diventano un nemico sconosciuto e invincibile; con la conoscenza, hai un arma in più per contrastarli. Passarono alcuni anni e i benefici furono rilevanti, non è che da allora sia stato sempre bene. Sono riuscito a gestire il mio malessere. Ho continuato a fare delle opere che mettono disagio e angoscia a chi le guarda, ma sono fatte con consapevolezza di dover disturbare. Dopo la cura psicanalitica non avevo più quel disagio esistenziale che mi accompagnava negli anni precedenti.
Del ricovero all’ospedale ho conservato un’opera. Rappresenta un malato di mente, chiuso in una camera con inferriate che ha tra le braccia come unico compagno, una bambola.
Come ho già detto, un altro tema che ho trattato fin dai miei esordi di pittore è quello dell’ambiente e dell’inquinamento. Iniziai, già da metà degli anni Settanta, prima con gli alberi scheletrici, senza più foglie e linfa vitale, poi con veri e propri paesaggi degradati, fiumi pieni di rifiuti, uomini che camminano con maschere antigas per le strade ed animali in via di estinzione come lupi che venivano uccisi da uomini con cravatta, camicia e giacca.
Sogno il ritorno ad una civiltà pastorale
Rifiuto il progresso e la società industriale
sogno il ritorno ad una civiltà pastorale
Non voglio vivere in una fabbrica chiusa
tra fumi e rumori innaturali
e produrre oggetti che non servono a niente
Vorrei vivere con luce solare e non con quella artificiale
Rifiuto il progresso e la società industriale
sogno il ritorno a una civiltà pastorale
Non voglio farmi lavare il cervello con Vip
in un ufficio sterilizzato
e dialogare soltanto con Windows 2000
Non voglio avere come prima esigenza
l’incremento di quel che consumo
esser trattato da deficiente nei tanti spot in televisione
Rifiuto il progresso e la società industriale
sogno il ritorno ad una civiltà pastorale
Non voglio mettermi la mascherina
se voglio andare a fare due passi
non voglio neanche fare i duecento
per recuperare qualche minuto
e poi fare tre ore di fila alle casse di un supermercato
Non voglio fare l’amore con una donna virtuale
ma con una che ha anima e corpo
non voglio nemmeno ammalarmi di cancro
a causa di sostanze che non conosco
e quante piante e animali sacrifichiamo
di giorno al buio in appartamenti
con porte e finestre con inferriate
che sembrano celle per criminali
Sogno il ritorno a una civiltà pastorale
per poi mandare tutti a .......
Dopo il periodo buio dell’esaurimento tornavo ad avere un mio equilibrio sia in famiglia che nell’arte. Nel lavoro ero tornato quello di una volta. Avevo ritrovato una mia dignità che per le vicende passate avevo perso; quando uno sta male l’ambiente medico e tutta la struttura sanitaria ti tratta come un numero o nella migliore delle ipotesi come un bambino. I medici e gli infermieri non ti danno neanche più del lei. Questa è una società che ti rispetta solo se puoi difenderti, debole con i forti e forte con i deboli; una verità che avevo sperimentato sulla mia pelle.
Cominciavo in quel periodo, nei primi anni Ottanta, ad essere conosciuto ed apprezzato come pittore. Avevo cominciato anche a fare sculture dipinte; i temi erano sempre quelli dell’emarginazione e della solitudine. Dipingevo uomini senza dimora e anziani soli. Erano opere che piacevano molto e trovavo sempre più estimatori. Nel 1986 feci un’importante mostra nella sala del ‘300 di Palazzo Re Enzo a Bologna assieme a Veronesi, lo scultore che aveva fatto il monumento sulla strage dell’Italicus. Eravamo due artisti che provenivano dal mondo del lavoro; io metalmeccanico e Veronesi ferroviere. Il responsabile culturale della CGIL in quegli anni, mi disse che la Commissione Cultura del Comune di Bologna aveva fatto di tutto per impedire quella mostra; io per loro non ero all’altezza; inoltre dovevano continuare a fare i loro giochi con la critica ed i mercanti ed a utilizzare le strutture pubbliche solo per loro. Sembrava avessero il diritto esclusivo sugli spazi pubblici. In quel periodo cercai di rifondare un Sindacato Artisti che aveva avuto un notevole successo fino alla metà degli anni Sessanta e che poi era scomparso perché gli artisti, in genere sono molto individualisti e ciascuno ha la presunzione di essere al di sopra degli altri. Sognavo un Sindacato dove tutti avessero possibilità di farsi vedere e conoscere, dove tutti quanti avessero pari dignità e gli spazi non rimanessero privilegio di pochi, ma di tutti quelli che lo meritano. Alla prima riunione che organizzai con mia grande meraviglia parteciparono una cinquantina di pittori; avevo ragione quando pensavo che era un problema molto sentito. Io non volevo occupare posti di responsabilità, mi bastava solo la soddisfazione di aver contribuito in modo determinante alla realizzazione del Sindacato. Ma fin dall’inizio capii subito che c’erano persone subentrate nell’organizzazione solo per acquistare un maggior spazio e visibilità; alcuni che avevano la presunzione di essere più bravi e conosciuti volevano già escludere pittori che erano bravi, ma facevano lavori che loro giudicavano poco prestigiosi. Non ho mai capito perché un insegnante può essere considerato un artista e un metalmeccanico, un commesso e una casalinga no. Capii subito che in poco tempo avrebbero fatto gli stessi errori che erano stati compiuti nel passato e decisi quindi di defilarmi. Per tanti anni non volli più esporre a Bologna ed andai a cercare fortuna fuori dalla Città. Il monopolio culturale tornò in mano a quelle poche persone che contavano. Conservo una bellissima lettera dell’allora Direttore della Galleria d’Arte Moderna di Bologna Franco Solmi, che parla della sua lotta per mantenere lontani dalla Galleria quei poteri che condizionavano l’Arte e la Cultura. In quella lettera del 1984 mi scriveva Solmi: “Non vedo perché un comunista dovrebbe smettere proprio adesso di battersi per rompere lo schieramento dell’Accademia alleato con il potere economico e con l’industria culturale che, come ha visto, ha successo quando toglie rabbia agli artisti. Auguri per la creazione del Sindacato”. A Bologna sappiamo tutti come andò a finire; Solmi fu lasciato solo e allontanato per un cavillo burocratico dalla Direzione della Galleria. Morì poco tempo dopo per un tumore a mio parere causato anche dai dispiaceri che aveva dovuto subire. In quel periodo ero molto idealista e con il contributo dell’arte volevo riuscire a dare una mano per migliorare la nostra società così individualista ed egoista.
Quella volta volli mettere alla prova la critica ed il pubblico e, d’accordo con un mio amico gallerista, feci un quadro con lo stile di Ligabue; lo firmai col suo nome e lo diedi al mio amico perché lo esponesse in Galleria. Una volta esposto le reazioni del pubblico furono le più disparate; alcuni dicevano che era molto bello e che lo stile di Ligabue era inconfondibile, poche persone rimanevano perplesse; altri ne chiedevano addirittura il costo. Il Gallerista aveva messo a quel dipinto un prezzo più basso rispetto al valore di mercato, diceva che l’aveva comprato da un vecchio che non sapeva chi fosse Ligabue. Un collezionista voleva comprarlo ad ogni costo e dopo tante insistenze il mio amico gli disse che l’avevo fatto io per scherzo; gli rispose che per quel prezzo l’avrebbe acquistato lo stesso perché, tanto tra qualche anno quel ‘Ligabue’ sarebbe diventato ‘buono’ lo stesso. Un esperto compiacente lo avrebbe sempre trovato per autenticarlo. Presi il mio quadro e lo portai a casa; lo conservo ancora esposto nell’ingresso, ma ora è firmato Soricelli.
Una canzone per Antonio Ligabue
Mamma te ne sei andata
io con te non son mai stato
quella donna mi ha voluto
ma mi tratta con distacco.
Tutto faccio per dispetto
in collegio mi spedisce
poi si pente e mi riprende
fino a quando i gendarmi
mi spediscono in Italia.
Chi è cal brot e sgraziè
j’al ciamen al tedesc
Ma l’e al fiol ed Laccabue.
Carriola su carriola
quanta sabbia ho trasportata
fino a quando nella gavetta
uno stronzo mi han buttato
umiliato in un bosco son scappato
e solo in una capanna io vivrò.
Dritto in piedi una buca
son costretto a dormire
mi fasci anche la testa
per salvare naso e orecchie
da topi affamati.
Quando vado a Gualtieri
devo mettermi ad abbaiare
per non prendere sassate.
Svizzera mia cara quanta nostalgia
Dai figliolo vieni con me
No! Tu mia madre hai avvelenata
non sarò mai un Laccabue, sono Antonio…Ligabue
Dammi un bacio, dammi un bacio
e un mio quadro ti darò
io di baci non ne ho mai avuti
Nero di fuliggine e cartoni
si trasformano in animali
coi colori entro nei quadri
sono tigre maestosa
e cerbiatto da predare.
Dammi almeno tre minestre
questo quadro è molto bello.
Tutti vogliono i miei quadri
ma nessuno mi dà amore.
Ora che la vita mi girava
son rimasto paralizzato.
Da bestia son vissuto
morire proprio adesso….
Tra i denti impreco Dio…
non doveva finire così.
Un mio amico aveva voluto che facessi il ritratto al suo gatto; quando finii il quadro lo portai a casa sua e l’appoggiai per terra contro una sedia per farglielo vedere meglio. Arrivò il gatto, si avvicinò miagolando al dipinto, l’annusò e girò intorno alla tela. Non riusciva a capacitarsi della situazione; non riusciva a capire di che cosa si trattasse, fece ancora qualche giro e poi andò via accompagnato dalle nostre risate.
Conobbi Pino quando ero molto giovane e frequentavo la Galleria di via Indipendenza diretta dal pittore Enea Garagnani. Pino aveva un laboratorio di sartoria proprio di fianco alla Galleria; tutti sabati pomeriggio andavo prima a salutare Garagnani e poi salivo per la scala a chiocciola che Pino aveva nel suo negozio. Mentre cuciva mi parlava di pittura, dei tanti artisti che conosceva e che apprezzava. E’ stata una conoscenza molto importante per me; era una persona preparatissima con una tale cultura pittorica che stavo delle ore ad ascoltarlo in silenzio. Parlava con una tale passionalità dell’arte che era fantastico starlo a sentire. Ho imparato più da lui che dai tanti critici che spesso utilizzano gli artisti solo per il loro tornaconto personale cercando di evidenziare più la loro recensione che le opere di cui devono parlare. Guai a contraddire Pino quando parlava d’arte; sembrava un tribuno che parlava al popolo, anche se in sua presenza c’ero solo io. Era un grande amico di Gino Covili e si era fatto fare da lui un disegno sul muro nel laboratorio dove cuciva. Conservava quel disegno come se fosse una reliquia; avrebbe scommesso che un domani la Sovraintendenza lo avrebbe messo sotto tutela.
Mi fanno sorridere tutti quelli che credono al genio che prende in mano per la prima volta un pennello e fa un capolavoro. Artista si diventa, come del resto avviene in tutti i campi, con l’applicazione ed i sacrifici. Ore ed ore, giorni e giorni, anni ed anni ad applicarsi con grande dedizione e sacrifici. Non esistono scorciatoie; “artisti” che avevano raggiunto una certa notorietà, montati dalla critica e dai mercanti, si sono dissolti come neve al sole. Quanti ingenui, non veri conoscitori d’arte, si sono rovinati o hanno buttato via delle montagne di soldi per ‘capolavori’ creati più dalla critica che dal talento. Mi ricordo che i miei primi quadri erano proprio delle schifezze; sono riuscito a migliorare e ad acquistare una mia personalità artistica lavorando per anni e anni con costanza e passione.
Nei primi anni Ottanta cominciai a partecipare al Premio Nazionale delle Arti Naives di Luzzara. Luzzara è il paese natale di Cesare Zavattini ed in quella zona confinante con il Po ha vissuto anche Antonio Ligabue. Zavattini era appassionato d’arte ed aveva voluto quel Premio assieme all’allora sindaco di Luzzara Renato Bolondi. Col passare degli anni quel premio divenne il punto di riferimento principale dei tanti artisti naives. Sono passati di lì Roversi, Ghizzardi, Covili e tanti altri.
Finalmente ero uscito dall’ambito cittadino e potevo misurarmi con artisti che provenivano da tutte le parti d’Italia. Il primo anno passai inosservato, il secondo vinsi il primo premio per la scultura e mi fu assegnata una sala omaggio.
La persona incaricata di sorvegliare le opere a quella mostra del Museo d’Arte Naive di Luzzara, allestita nella sala D’Ercole del Comune di Bologna, doveva essere proprio un protoleghista. Quel giorno portai a vedere la mostra dei miei amici, tra cui Renzo, che tanto mi aveva aiutato facendo cataloghi e manifesti in cambio di mie opere. Passando davanti a quell’individuo dissi che ero l’unico di Bologna che esponeva in quella mostra. Senza che nessuno chiedesse il suo parere sbottò dicendo con rabbia e livore che io non ero di Bologna, ma meridionale. Io vivo in questa città da quando avevo quattro anni e credo di aver assimilato la storia e la cultura bolognese più di tanti altri che sono nati qui. Oltretutto la mia famiglia è originaria dell’Emilia. In un Museo statunitense che raccoglie documenti sull’origine dei cognomi danno la mia famiglia originaria proprio del bolognese, come del resto è scritto nei documenti di famiglia che conserviamo. Vidi Renzo, che è una gran brava persona ed è nato a Bologna, vergognarsi per lui. Mi meravigliai per non aver reagito, come avrei fatto di solito, con altrettanta violenza verbale. Capivo comunque che con queste persone, poche per fortuna, non c’è niente da fare; sono talmente incolte che non vale la pena di arrabbiarsi. Gli dissi soltanto (era il 1988) che alle persone che venivano “da fuori” doveva abituarsi e che presto questa città con un tasso di natalità così basso sarebbe stata riempita non da meridionali, che per fortuna non emigrano più, ma da gente di tutti i paesi del mondo. Bastava essere informati per capire che presto, non solo Bologna, ma tutta l’Italia sarebbe diventato un paese multietnico. Chissà quel povero uomo come sta ora, cosa ne pensa della trasformazione così profonda di Bologna diventata in neppure un decennio una delle città più colorate d’Italia.
LA Rosa era un pittore senza dimora che conobbi nella galleria d’arte di Enea Garagnani in via Indipendenza. Quando vidi che quel vecchio artista malandato ma così affascinante non sapeva dove andare a dormire lo ospitai a casa mia. Anche se avevamo già una figlia di quattro anni eravamo ancora molto giovani e incoscienti. Mia moglie, sempre molto disponibile, non ebbe niente da obiettare. Ammiravo quel personaggio che dipingeva così bene, che aveva una grande cultura e una conoscenza approfondita di tutta la storia dell’arte. Quando ero a lavorare lui andava in giro per Bologna e tornava all’ora di cena. Dopo alcuni giorni che l’ospitavamo ci telefonò mio fratello maggiore Antonio, che era maresciallo dei carabinieri; aveva saputo del nostro ospite e ci chiese se eravamo matti a prendere in casa uno sconosciuto, senza sapere chi era. Ci disse che poteva essere un ladro, un assassino, un truffatore o un pazzo. La Rosa era nell’altra stanza che conversava amabilmente con mia moglie ed appena misi giù il telefono mi apparve subito sotto un’altra luce. Chi era veramente quest’uomo che girovagava per l’Italia, che diceva che era una sua scelta esistenziale quella di non fermarsi mai? Per me non era più un bravo artista un po' eccentrico, ma uno che era capace delle più feroci nefandezze. Chiamai mia moglie per comunicarle della telefonata di mio fratello ed anche lei cominciò a preoccuparsi. Non potevamo più mandarlo via per quella sera, era già una tarda ora d’inverno. Gli preparammo come le altre sere il divano letto nella saletta di fianco alla cucina, poi lo salutammo ed andammo a letto. Ai nostri occhi La Rosa si era trasformato; mentre lo salutavamo per la buona notte, vedevamo sul suo volto uno sguardo luciferino. Non ci sentivamo più sicuri. La camera da letto non aveva le chiavi, e non potevamo chiuderci dentro; andai a prendere un martello dal cassetto del tavolo della cucina e mettemmo i comodini e diverse sedie contro la porta della camera. Se avesse cercato di entrare gli avrei dato una martellata in testa. Mia moglie volle prendere a letto con sè Elisa; passammo una notte insonne ed alla mattina gli dicemmo che purtroppo non lo potevamo più ospitare. In quei giorni gli avevo fatto un ritratto molto somigliante che ancora conservo.
In seguito La Rosa ci telefonò da diverse città e non lo vedemmo più. Mio fratello aveva intanto preso informazioni su di lui, aveva scoperto che era veramente un assassino, circa trent’anni prima era un giovane professore che uccise sua moglie e l’amante quando li trovò a letto insieme. Dopo tanti anni di carcere aveva cominciato a girovagare per l’Italia, si manteneva dipingendo opere per chi gli dava da mangiare e ospitalità. Conservo due suoi dipinti; uno rappresenta degli sbandati che dormono in Stazione e un altro un bel paesaggio.
Così come era arrivato sparì all’improvviso e non lo vidi più. Quando mia moglie seppe chi era, a momenti non cadde in terra svenuta.
Nel 1980 ci fu la grande lotta dei lavoratori della FIAT. I vertici aziendali ed i proprietari volevano ristrutturare l’azienda licenziando dei dipendenti. Allora il movimento sindacale era molto forte, anche se si cominciavano ad intravedere le prime debolezze. Pochi anni prima c’era stata la famosa svolta dell’EUR. Improvvisamente e senza preparare culturalmente i lavoratori, i vertici sindacali avevano deciso di passare da un sindacato antagonista ad uno cogestore. Gli anni Settanta erano stati anni di grandi conquiste; si erano affermati i Consigli di Fabbrica, non esisteva più, se non per giusta causa, il licenziamento individuale; erano aumentate le ferie, era nata la contrattazione aziendale. I lavoratori, tramite le proprie rappresentanze aziendali, avevano voce sulle strategie aziendali e sulla salubrità dei luoghi di lavoro. Erano anni di grandi speranze e utopie. La disoccupazione era scomparsa in quasi tutta l’Italia. Gli intellettuali erano vicini alla classe operaia perché contava molto e con il loro solito opportunismo stavano dalla parte del più forte. A mio parere proprio quella conflittualità diffusa aveva reso moderno il paese; tutto il sistema era obbligato a confrontarsi, gli industriali erano costretti ad investire in tecnologia. L’Italia non ha più raggiunto il livello di benessere degli anni Settanta, in quei tempi il reddito e la prosperità erano meglio distribuiti e più diffusi.
I sindacalisti, a mio parere con scarsa autonomia, avevano seguito la strategia chiamata Compromesso Storico dell’allora segretario del P.C.I Enrico Berlinguer; la tragedia cilena di pochi anni prima, aveva avuto una notevole influenza sui dirigenti politici del Partito i quali temevano che anche in Italia potesse accadere quello che era capitato in quel paese. Solo dopo alcuni anni di questo indirizzo sindacale gli industriali avevano capito che poteva essere il momento di assestare un colpo mortale al Sindacato e al Partito Comunista. I lavoratori ed i delegati che li rappresentavano erano molto perplessi sulla strategia nata dall’EUR e si sentivano culturalmente impreparati. Un secolo di lotte operaie impostate sull’antagonismo di classe venivano abbandonate. I Consigli di Fabbrica diventavano funzionali alle strategie aziendali e dovevano cominciare a gestire, assieme agli industriali, la cassa integrazione, la ristrutturazione ed i licenziamenti. Moltissimi delegati che non si riconoscevano in questa svolta cominciarono in quel periodo ad abbandonare l’impegno sindacale. Il sindacato cominciò a perdere credibilità e influenza tra i lavoratori; iniziò un lento declino delle organizzazione dei lavoratori che continua ancora adesso; tanti lavoratori, i più colti e preparati, non credevano più in esso.
Attualmente solo una minoranza di lavoratori attivi è iscritta ad un sindacato, insieme alla tessera sindacale molti si tolsero anche quella d’appartenenza politica. Gli industriali erano costretti ad investire in tecnologia, non potevano agitare come adesso lo spauracchio della disoccupazione. In quegli anni la disoccupazione è diventata massiccia ed a loro funzionale. Oggi, per essere competitivi, non è più importante investire in tecnologia e ricerca, basta aumentare i carichi di lavoro, le ore di straordinario e precarizzare sempre di più il lavoro con la “flessibilità”. Le assunzioni a tempo parziale e con i contratti di formazione hanno reso i rapporti di lavoro ancora più instabili. E’ una politica miope che farà diventare col tempo l’Italia un paese sottosviluppato. I giovani più preparati andranno a cercare posti di lavoro che diano certezze per il futuro. Attualmente quasi nessun lavoratore s’impegna con determinazione nei Consigli di Fabbrica, a causa della “mobilità” (un termine più elegante per dire licenziamento) si corre in ogni momento il rischio di essere espulsi dai luoghi di lavoro. I delegati sono diventati quasi ovunque subalterni ai proprietari e non godono più di nessuna autonomia.
L’ultimo tentativo dei lavoratori di ribellarsi a quella strategia ci fu nel 1983 con il movimento degli Autoconvocati che, nato dal basso tra i delegati e gli operai, si riprometteva di creare un movimento autonomo che organizzasse la protesta in tutti i luoghi di lavoro. Gli Autoconvocati volevano contrattare direttamente la strategia con i vertici sindacali; non volevano prendessero decisioni autonome senza che fossero coinvolti sui problemi che li riguardavano. Furono momenti di grande speranza, ma durarono poco. L’apparato sindacale, era molto potente e lentamente fece breccia sui delegati, soprattutto su quelli che avevano dei benefici: la possibilità di avere dei permessi pagati, giornalieri ed anche mensili, per staccare dal lavoro. Si consumò in quel periodo l’ultima possibilità di cambiamento. Il Sindacato, a mio parere, non capendo fino in fondo la posta che c’era in gioco, ha continuato a perdere di influenza e credibilità e cerca sempre più il consenso dai partiti politici e non da chi dovrebbe tutelare. A mio parere la classe operaia, il sindacato e tutti i partiti politici di sinistra, a causa della svolta dell’EUR hanno perso identità e anima.
Tornando al 1980, il sindacato di zona della Bolognina, decise di raccogliere fondi per sostenere la lotta dei lavoratori FIAT che avevano occupato le fabbriche. Raccolse denaro in tutti gli stabilimenti ma i soldi che dovevano andare ai lavoratori in sciopero non erano sufficienti. Io cercavo di dare il mio contributo come meglio potevo; realizzai un quadro di un operaio Fiat con la tuta blu che usciva dal lavoro. Aveva una sigaretta accesa, il basco in testa. Riproducemmo questo quadro su un manifesto a colori e lo mettemmo in vendita. I manifesti furono venduti quasi tutti ed il quadro lo diedi al litografo in cambio del lavoro fatto. Ancora adesso conservo alcune copie di quel manifesto; a guardarlo bene si capisce che era un mondo che stava per finire assieme al blu delle tute. La lotta si concluse con la famosa marcia dei quarantamila quadri Fiat contro gli operai. I vertici sindacali si spaventarono e andarono a contrattare la cassa integrazione ed i licenziamenti mascherati da cassa integrazione di lungo periodo; andarono alle assemblee dei lavoratori, ma dovettero abbandonarle perché aggrediti per il loro cedimento.
Sempre per raccogliere fondi per i lavoratori Fiat al sindacato di zona della Bolognina (in quel quartiere Occhetto fece la famosa svolta) si fecero anche delle tombole; io offri un mio quadro molto bello e spiritoso; in una tela di un metro, a grandezza naturale, avevo fatto un gallo che ‘montava’ una gallina. Mi ricordo che Fabbi, un sindacalista, rise molto quando lo vide. L’anno scorso, durante la mostra a Palazzo d’Accursio, venne un signore che mi disse che aveva quel quadro, gliel’aveva regalato la persona che aveva vinto quella tombola e proprio mentre la stampa e la televisione parlavano di me e della mia esposizione.
Andai alla Festa provinciale dell’Unità di Bologna per assistere ad un dibattito a cui partecipava Pietro Ingrao: parlava di polvere e torri.
(dedicata a Pietro Ingrao)
Sognavi di polvere e torri
ti chiedi e ci chiedi
se son state illusioni
La polvere non è più visibile
col vento forte del consumismo
si è dispersa in mille granelli
ciascuno ha portato con se un pezzetto di torre
I muratori li stanno cercando
e con grande fatica li stan raccogliendo
Anche tu sei un muratore che cerca granelli
e un pezzo di torre stai edificando.
Nei primi anni Ottanta feci la conoscenza di un prete di campagna: Don Antonio. Lo vidi casualmente per la prima volta al matrimonio della sorella di mia moglie; durante la funzione toccò degli argomenti che mi stupii uscissero dalla bocca di un prete. Aveva grandi doti d’oratore, parlava con una passione veramente originale del messaggio di Cristo. Indicava come esempi di vita delle persone che a me sembravano veramente lontane da quelle che normalmente la Chiesa considerava tali, parlava di Grace Kelly e di politici come Antonio Gramsci. Io ero in un periodo di forte crisi, vedevo tutto nero, e sentire Don Antonio mi ridava speranza nel futuro. Tutte le domeniche mattine, tra una messa e l’altra, andavo a trovarlo e parlavo con lui di tante cose. Mi fece anche delle bellissime recensioni su alcune mie opere che inserii in un catalogo quando successivamente feci un’importante mostra. Gli donai in cambio un volto di Cristo come lo immaginavo io. Antonio era un uomo molto tormentato dalla continua ricerca di se stesso e di Dio. Ricordo che mi disse che quando era bimbo pensava che i preti non andassero neppure in bagno come tutti gli altri uomini.
Un giorno gli volli far vedere una mia piccola scultura che avevo fatto tempo prima; rappresentava un prete che abbracciava un handicappato deforme nell’aspetto; il prete guardava il cielo e s’interrogava ed interrogava Dio; l’avevo intitolata ‘i dubbi del prete’. Don Antonio guardò a lungo la scultura e quando gliela offrii in dono la rifiutò, notai che era molto turbato. Ci rivedemmo diverse altre volte. Poi, come si fa inspiegabilmente e senza una ragione, ci siamo persi di vista. Tempo fa lo rividi e mi disse che quella scultura avrebbe dovuta accettarla perché era molto significativa. Sono passati da un pezzo gli anni Settanta, un periodo di grandi speranze di cambiamento e forse le persone come don Antonio e me, sono rimaste talmente deluse da come sono andate le cose che probabilmente, se ci incontrassimo, non sapremmo più di cosa parlare. E poi la vita ti risucchia in un modo così strano e imprevedibile che perdi i contatti anche con le persone che ammiri e stimi tanto. Quell’uomo, quel prete che ogni giorno rimetteva in discussione la sua fede non dogmatica, religioso pur nella sua continua ricerca, mi ha dato un bellissimo esempio di vita.
Mauro Donini è un critico d’arte bolognese che conosco fin dal mio esordio di pittore. Una volta lo convinsi ad andare a vedere degli scavi archeologici in mezzo alla campagna. Guidavo io, la strada era sterrata e aveva appena piovuto abbondantemente; ad un certo punto l’automobile si fermò in mezzo al fango e non ripartì più. Donini scese dall’automobile e cominciò a spingere: era un uomo molto distinto e vestiva sempre compitamente. Le ruote slittavano nella melma e solo dopo vari tentativi riuscimmo a ripartire; quando salì non lo riconoscevo più, sembrava fosse stato mitragliato dal fango; ne aveva così tanto anche sul volto che non riuscii a capire se era più arrabbiato o stupito. Stette a lungo in silenzio mentre con il fazzoletto cercava di darsi un contegno. Io mi dovetti mordere le labbra per non ridere.
Quel giorno mi ero proprio commosso davanti a quella anziana signora che mi faceva tutti quei complimenti per le mie opere, capendo che non poteva permettersi di spendere nemmeno una lira, decisi di regalargliene una. Mi ricordo che le vennero gli occhi lucidi per quel gesto. In seguito seppi che l’aveva venduta.
Da metà degli anni Ottanta fino alla fine del decennio facevo delle composizioni artistiche utilizzando i rifiuti giornalieri. Più di una volta mia moglie mi vedeva raccattare da casa scatole, bottiglie, lattine ed altro; utilizzavo tutto ciò che a mio parere poteva essere una testimonianza di questi anni cosiddetti consumistici. Artisticamente volevo dare a quegli oggetti lo stesso valore dei reperti archeologici; chissà, forse tra tanti anni, queste schifezze avrebbero avuto lo stesso valore storico-artistico dei reperti degli antichi. Mia moglie mi guardava perplessa, scuoteva la testa e s’allontanava brontolando. Alcune volte per ultimare le composizioni utilizzavo anche bottiglie di olio d’oliva, bibite e scatole ancora piene. Quando Floriana se ne accorse iniziò a controllare dentro il frigorifero e sulle mensole per vedere se mancava qualcosa.
Quell’anno mi trovavo in ferie dai suoceri a Ponte della Venturina e mi stavo annoiando; non avevo voglia di dipingere al chiuso con quella bella stagione e così andai nel bosco di Varano con pennelli e colori. Quello è un bosco conosciuto soprattutto perché in autunno è ricco di funghi porcini; le pietre in quella zona sono particolarmente lisce e si prestano molto per essere dipinte. Sopra a queste pietre dipingere animali: lupi, cinghiali, ricci, caprioli, lepri; ma anche funghi porcini e russole. I funghi dipinti si confondevano con la vegetazione e sembravano veri. In pochi giorni avevo dipinto una cinquantina di pietre: l’effetto era bellissimo, sembrava che quel luogo fosse diventato un bosco delle favole. Il mio sogno è sempre stato quello di fare qualcosa che potesse incantare i bambini. A settembre, quando il bosco si animò per i cercatori di funghi, mi nascosi per vedere l’effetto che faceva sulle persone; sentivo grida d’esclamazione di bimbi che correvano per il bosco alla scoperta di nuovi dipinti. Utilizzai dei colori acrilici senza protettivo, non volevo che i dipinti rimanessero in eterno; in poco tempo la natura avrebbe riportato tutto allo stato naturale. Si sparse la voce ed i visitatori aumentavano sempre di più. Nonostante questi boschi non fossero recintati erano comunque di proprietà privata. I padroni del terreno non erano molto contenti di tutta questa gente che andava sul loro podere. I montanari emiliani sono particolarmente gelosi della loro proprietà. Uno di questi mi fece la posta e quando mi vide con i pennelli in mano mi si parò davanti chiedendomi i documenti. Gli dissi che non avevo rovinato niente e che in poco tempo tutto sarebbe ritornato come prima. Quella persona mi diede una lezione di civiltà dicendomi che i boschi sono affascinanti così come sono ed anche se i dipinti erano belli non era quello il luogo adatto per pitturare. Per scusarmi gli regalai un mio dipinto. Aveva perfettamente ragione anche perché l’anno dopo quando tornai, notai che molte pietre dipinte erano state rubate, anche quelle di grandi dimensioni. Mi dispiacque molto perché mi considero un amante della natura e involontariamente e con superficialità, avevo alterato l’equilibrio di quel bellissimo bosco di castagni.
In quel giorno di circa dieci anni fa andavo nel fiume Reno che scorre sotto a Ponte della Venturina, nel punto dove si congiunge con il Limentra, (il fiume che è presente anche in una canzone di Guccini che infatti viene da Pavana, paese che si trova dall’altra parte del ponte che divide l’Emilia dalla Toscana). Lì vidi una pietra sagomata che sembrava una stele antica, in realtà era un gradino di una vecchia casa in pietra, buttato nel fiume. Mi feci dare una mano per raddrizzarlo e ci dipinsi sopra di essa un cacciatore primitivo con tanto di arco e frecce. Raccolsi moltissime pietre e li misi intorno alla stele. Sembrava proprio una tomba antica che era emersa dall’acqua del fiume. Da quel momento andai per diverso tempo a raccogliere nel letto del fiume delle pietre che si prestavano ad essere dipinte. Comunque mi stancai presto anche perché erano massi pesanti e tutte le volte che andavo a raccoglierli mi prendevo dei gran mal di schiena. A Guccini, che ho conosciuto nell’estate 1997, e che è persona di gentilezza ed affabilità veramente uniche, ho fatto un ritratto su di una pietra a forma di montagna che ho raccolto da una frana dalle parti di Molino del Pallone.
Mettere dipinto ritratto Guccini e aquilotto
Il Museo delle Arti Naive di Luzzara mi invitò ad esporre con una personale alla Festa Nazionale de l’Unità che nell’anno 1995 era a Reggio Emilia. Mi diedero l’occasione di esporre assieme a quel grande personaggio che fu Cesare Zavattini, da poco scomparso. Per me, figlio di emigrati meridionali, fu veramente un motivo di grande gioia e soddisfazione; era un sogno essere stato scelto tra centinaia d’artisti a rappresentare l’arte padana. Quando me lo proposero ne fui commosso, pensavo a mamma e papà.
In quell’occasione mi capitarono diverse cose curiose. L’esposizione fu visitata da decine di migliaia di persone. In tanti mi scambiavano per il sorvegliante e mi chiedevano da quanto tempo era morto l’autore. Cominciò una coreana, che credevo fosse giapponese (tutti quelli con gli occhi a mandorla sono per noi giapponesi) col chiedermi da quanto ero morto; feci un gesto molto lento e impercettibile ai suoi occhi, ma per me molto efficace. Quando le dissi che l’autore ero io, si mise a ridere, si scusò e mi attaccò una “pezza” per più di un’ora di come si dipingeva in Corea. Visto che tutte quelle persone chiedevano proprio a me se ero morto, istintivamente tenevo una mano in tasca in modo da poter fare velocemente gli scongiuri necessari.
Per ringraziare il P.D.S dell’ospitalità che mi aveva dato in quell’occasione, donai al Segretario Massimo D’Alema un dipinto che rappresentava un operaio metalmeccanico.
Quando D’Alema venne alla Festa, visitò tutti gli stand e passò anche dalla mia mostra. Era scortato e circondato da un centinaio di persone ed era costretto ad alzare la testa per vedere le opere. La scorta e i suoi estimatori, stampa, televisione e curiosi andavano a passo talmente veloce che D’Alema sembrava fosse trascinato da loro. Quando mi passò di fianco e m’intravide mi salutò e ringraziò con voce e sguardo rassegnato per quella bolgia; era spinto talmente forte che finì il saluto con la testa girata all’indietro, mi aveva già superato di un paio di metri. Al loro passaggio mia moglie fece appena in tempo ad acchiappare una grande scultura che stava per cadere dal piedistallo; sembravano una mandria di bisonti che travolgeva tutto quello che trovava sulla loro strada.
Una sera alla Festa venne Romano Prodi eletto leader del movimento dell’Ulivo che era appena nato. Come bene augurante per le elezioni che erano ormai alle porte, gli donai un piccola scultura dipinta, rappresentava un vecchio angioletto che spiccava il volo. Il titolo dell’opera era “Se chiudo gli occhi posso volare”.
Spesso mi chiedevo se non avevo idealizzato quegli anziani soli e poveri che da tanti anni dipingevo e scolpivo ed a cui spesso mettevo le ali. Un giorno alla mostra, arrivò un volontario della sorveglianza molto vecchio; mi misi a parlare con lui che mi raccontò della sua vita. Ricordo che mi disse che gli era da poco morto un figlio in un incidente d’auto. Era una persona molto affascinante, con grandi occhi azzurri e capelli candidi. Dopo aver chiacchierato a lungo si stancò e si sedette involontariamente proprio di fianco ad una mia scultura che rappresentava un anziano con le ali. Rimasi colpito, quel bellissimo nonno era uguale alla mia scultura; gli chiesi se sarebbe tornato qualche altra volta, mi rispose di sì e quando lo fece gli scattai una foto che in seguito utilizzai per fargli un bel ritratto che conservo con affetto.
Quell’anno inaugurò la Festa un personaggio storico del P.C.I. e poi del P.D.S., la Senatrice Giglia Tedesco. Quando passò assieme al Segretario del PDS di Reggio si fermò con attenzione a vedere le mie opere. Mi disse che le piacevano molto. In seguito, visto che era stata così gentile, le chiesi se sarebbe potuta venire ad inaugurare una mia mostra a Bologna e se voleva presentare il mio primo libro “Marucheìn Abitavo in via del Carroccio”. Con mia grande soddisfazione accettò con entusiasmo. Quando venne a Bologna a presentare il libro, volle visitare, anche se era già quasi mezzanotte, tutti i luoghi in cui si svolgevano le vicende descritte. Volle conoscere anche il mio amico d’infanzia Picciuna che nel libro tanto l’aveva fatta ridere. Giglia è una donna molto umana e sensibile, ed anche se ha un carattere allegro a volte ho notato in lei uno sguardo triste e malinconico. Mai mi sarei aspettato da una persona così impegnata la disponibilità a spostarsi da Roma per un metalmeccanico-pittore di provincia. Per ringraziarla volevo farle una sorpresa: una scultura fatta appositamente per lei raffigurante un vaso con delle rose blu dal titolo “rose metalmeccaniche” del colore della tuta che portano gli operai nelle fabbriche. Quella scultura gliela avrei donata alla prima occasione, ma purtroppo, quando feci la mostra A Palazzo d’Accursio, la rubarono assieme ad un bronzo che rappresentava un senza dimora.
In occasione della mostra di Reggio Emilia avevo portato anche due sculture dipinte di cani a grandezza naturale; una rappresentava una cagna che allattava i cuccioli e l’altra un grande cane nero sdraiato e legato con una catena, con a fianco una ciotola con dentro della brodaglia che doveva essere il suo cibo. A circa mezzo metro avevo riprodotto anche i “suoi bisogni”. Volevo descrivere così le terribili condizioni in cui teniamo molti amici dell’uomo. Assistetti a delle scene veramente incredibili tra i cani che entravano e le mie sculture. Nessun cane rimaneva indifferente; alcuni si mettevano ad abbaiare, altri scodinzolavano ed i più piccoli vedendo quel cane nero così grande, arretravano e scappavano. Un cane mi fece morire dal ridere; si mise ad una distanza di pochi metri dal cane nero e si sdraiò assumendo la sua stessa posizione, stette così una decina di minuti. Un volpino si avvicinò alla cacca, l’annusò e poi andò via. Ricordo di un cane che si avvicinò con noncuranza e poi all’improvviso scattò per cercare di mangiare quello che c’era nella ciotola. I presenti che assistevano alle scene si meravigliavano e ridevano come dei matti.
Mettere foto cani
(mettere foto) cani
Mettere foto
Mettere foto
Un altro ricordo simpaticissimo è quello legato alla scultura del mendicante che chiedeva l’elemosina con la mano tesa. Un visitatore gli diede cento lire di elemosina ed in poco tempo moltissime persone gli lasciarono l’obolo. Misi di fianco all’opera anche un cappello. Alla fine della mostra contai più di duecentomila lire in moneta. Quell’opera fa tenerezza. Un paio di anni prima il Museo di Luzzara fece una manifestazione con i commercianti del paese; ciascuno doveva mettere in vetrina un’opera d’arte. Il mio mendicante lo scelse un tabaccaio che non vendeva nemmeno un biglietto della lotteria; gli venne l’idea di mettergli alcuni biglietti in mano ed in pochissimo tempo vendette tutti quelli che aveva.
Quel giorno alla Festa vidi due persone un po' strane, uno dei due era molto magro e pallido, aveva una larga camicia bianca, un paio di pantaloni neri ed una montatura di occhiali molto spessa e scura; sembrava provenisse direttamente dagli anni ‘50. Guardò la mostra e si fermò sorridendo presso un mio personaggio mostruoso: era la scultura del “consumista”, è un’opera che feci a metà degli anni Ottanta, che rappresenta un uomo orrendo con scritte pubblicitarie su tutto il corpo e che si è alimentato mangiandosi. Non ha più le braccia, in bocca ha un suo dito e nella testa al posto del cervello un buco. Quest’opera fu acquistata dal museo dei Naive di Luzzara. Le due persone sorridevano davanti a quella scultura, si fermarono per molto tempo davanti poi, sempre sorridendo uscirono. L’uomo con gli occhiali neri ero sicuro di averlo visto da qualche parte, ma non ricordavo dove. Poi mi venne in mente che si trattava di Dario Argento.
Un’altra scultura che piace particolarmente è quella del vecchietto in raccoglimento davanti alla tomba della sua compagna. E’ un’opera che mi è proprio riuscita bene; in essa si vedono la decadenza fisica, la dolcezza, la nostalgia ed il rimpianto. E’ intitolata “colloquio”. Questa scultura colpisce particolarmente ed ho visto tantissime persone con le lacrime agli occhi quando la guardano. Chissà, forse in quella scultura tutti riconoscono un proprio caro, una moglie, una madre o una nonna.
Poesia ispirata dalla scultura Colloquio
(dedicata a tutti i vecchi genitori)
Fa molto freddo, ma oggi non potevo mancare
questo freddo mi entra nelle ossa e mi arriva fino al cuore
ho sempre freddo da quando te ne sei andata
Come stai? Lo sai quanto mi manchi
quando c’eri eravamo una persona sola
con uno sguardo ti capivo e mi capivi
Quando insieme andavamo a passeggiare
tu con forza mi stringevi sottobraccio
e la gente ci guardava con affetto
Di me sei sempre stata gelosa
la grande passione della giovinezza si era trasformata
col tempo i sentimenti son diventati dolci e profondi
Com’eri bella quando ti vidi per la mia prima volta
lo sguardo avevi luminoso
Ti ricordi quando ci sposammo ?
a lungo ti aspettai davanti alla Chiesa
la vecchia automobile di tuo zio non ne voleva sapere di partire
Quando t’incontrai in quella balera capii in un attimo ch’eri il mio amore
Con te avrei voluto passar tutta la vita
la nostra vita è stata dura
ma anche piena e viva
Per noi e i nostri figli con tanta fatica il futuro abbiamo costruito
i ragazzi se lo dimenticano
ma non importa, l’importante è che lo sappiamo noi
e che lo possiamo ricordare con orgoglio
Gianni mi ha portato a casa Davide
quel nipotino è proprio delicato gli è tornato ancora il mal di gola
Ricordo ancora le tue lacrime quando Francesca si laureò in Musica
e realizzò il tuo sogno di ragazza
Dopo i litigi facevam la pace
quante notti passate passate a parlar ed a far l’amore
Oggi è il nostro anniversario, sarebbero state le nozze d’oro
come ogni anno ti ho portato cinque rose rosse
Quel ragazzo mi guarda in modo strano
lui non può certo capire quanto mi manchi
che il nostro è stato un grande amore
e che se io ti parlo qui davanti alla tua tomba
tu mi rispondi dentro al mio cuore.
Ho donato al Museo di Luzzara un baule con l’impegno di aprirlo nel 2030: io volevo che si aprisse quando ero sicuro di essere morto, nel ‘2050, ma Anna Maria, la responsabile del Museo, mi fece mettere quella data perché era molto curiosa e per il 2030, salvo sfighe, avrebbe assistito all’apertura. Del contenuto della cassa, che esternamente è dipinta come un’antica camera mortuaria egizia, non è al corrente nessuno; nemmeno i miei familiari. Mia moglie è molto curiosa e tutte le volte che le manca qualcosa in casa dà la colpa a me dicendo che l’ho messa dentro quel baule.
Non avevo dubbi che avrei fatto cosa gradita donando alla Sindaca (adesso si dice così) di Luzzara quel piatto che rappresentava la sua città mentre veniva salvata dall’alluvione del 1994 da vecchi angeli; questi sorreggevano gli argini del Po che scorre a poche decine di metri. Quell’alluvione fece tante vittime in Piemonte. Da come la Sindaca mi ringraziò si vide che aveva apprezzato quell’opera particolarmente. Si fece dare un bel po' di giornali per proteggerlo meglio e lo mise dentro una borsina di plastica; lo teneva ben stretto per paura di romperlo. Mi salutò e proseguì la visita. La vidi tornare dopo una ventina di minuti avvilita: si era distratta un attimo e aveva preso contro qualcosa che aveva rotto il piatto. In seguito e con molta pazienza riuscii a ripararlo.
Luciano è un giovane architetto di Correggio, grande appassionato d’arte, che spesso mi ha dato una mano nell’allestimento delle mostre. In quella di Vicolo Bolognetti ebbe un’idea veramente originale; mi fece mettere su tutto il pavimento dei fogli di giornali tenuti insieme dal nastro adesivo. L’effetto fu veramente efficace. Il significato che intendeva dare (almeno credo), era quello del vissuto, del quotidiano, della povertà che ricorre in tante opere esposte, della città che indifferente pesta e lacera tutto.
Quel pittore trentenne che conoscevo da tanto tempo, da un anno ripeteva sempre lo stesso soggetto: il volto di una donna; ne cambiava solo l’espressione, a volte sorrideva ed altre volte era più seria. Era una donna vestita di blu o di verde, quella di cui si era innamorato, non corrisposto.
Un giovane pittore bolognese impregnava di sperma i suoi colori. Finita l’opera si masturbava indirizzando il liquido seminale sul dipinto. Diceva che sarebbe stato disposto a dare in cambio la sua vita per la riuscita di un capolavoro.
Matteo lo conobbi quando fui ricoverato per esaurimento nervoso. Aveva una malattia mentale e la sua pittura era veramente originale. Facemmo amicizia e ci sentimmo diverse volte. Andai anche a casa sua. Alcune volte mi telefonava alle cinque di mattina per parlarmi delle sue ultime opere. Morì di sincope per aver fatto il bagno nudo nel vicino fiume, era il mese di Febbraio. Conservo con molto affetto alcuni suoi dipinti.
Fausto D. era un artista di circa quarant’anni; la sua pittura se non fosse stata condizionata dalla continua ricerca di denaro sarebbe stata molto bella. Era sempre senza una lira e dipingeva tutto quello che gli chiedevano e per quello poteva sembrare un pittore senza una personalità artistica. Il suo problema era l’alcol, quasi tutti i giorni era ubriaco ed i soldi gli servivano per mantenere quel vizio. Ultimamente aveva poi peggiorato la situazione; era in profonda crisi perché sua moglie, una donna bellissima, l’aveva lasciato. La moglie aveva preso quella decisione perché non ce la faceva più a sopportare la situazione familiare; avevano due figli e spesso mancavano i soldi per mangiare. Lei mi disse che si era messa assieme a Fausto perché quando l’aveva conosciuto, una quindicina di anni prima, era molto bello e affascinante. Aveva cercato in tutti i modi di farlo smettere di bere, ma non c’era riuscita. Smetteva per qualche tempo, poi riprendeva più di prima. Gli voleva ancora molto bene; mi disse che con lui aveva creduto di avere un futuro radioso. Da quando sua moglie l’aveva lasciato era peggiorato moltissimo; era ubriaco dalla mattina alla sera. Nei rari momenti di lucidità riusciva a fare qualcosa e girava per bar e negozi cercando di vendere le sue opere. Gli erano caduti i denti davanti, aveva la voce pastosa e gli occhi erano sempre lucidi. Essendo molto bravo riusciva sempre a vendere quel che faceva, ma gli acquirenti, vedendolo in difficoltà ne approfittavano e strappavano un prezzo che non bastava nemmeno a pagare le spese. Quando era più giovane e stava bene l’ammiravo molto; aveva una pennellata materica, veloce e sicura. Quando negli ultimi tempi l’incontravo gli davo un po' di soldi senza chiedergli niente in cambio. Poco tempo fa l‘hanno trovato impiccato in cantina.
Ci sono delle persone che, pur non essendo degli studiosi d’arte, hanno per essa un amore, una passione, ed una sensibilità veramente unica. Una di queste persone è Renzo. Lo conobbi negli anni Settanta quando entrò per vedere le mie opere esposte in una galleria di via Indipendenza. Entrò con Henri, un grande artista rumeno che venne alla Biennale di Venezia a rappresentare la Romania, ma che decise di fermarsi in Italia per vedere le bellezze artistiche del nostro Paese. Henri raccontava che al suo paese non c’era democrazia, che preferiva fermarsi in Italia anche se non si considerava un rifugiato politico. Renzo ha affinato la sua sensibilità per l’arte e per il colore forse perché di mestiere fa il fotolitista. Ha sempre apprezzato le mie opere ed innumerevoli volte mi ha fatto gratuitamente cataloghi, manifesti e riproduzioni dei miei lavori, senza mai chiedermi niente in cambio. Sono sempre stato io che tra mille insistenze gli ho fatto dono di alcune mie opere. Quando gli piaceva qualcosa me l’ha sempre voluta pagare, anche se io non volevo. Renzo ha una grande sensibilità per gli animali; ricordo che una volta, con voce incrinata e rassegnata, mi portò a vedere dei tacchini. Questi maestosi animali chiusi dentro delle piccole e basse casse su di un camion, erano costretti a stare coi loro lunghi colli piegati in avanti. Lì dentro mangiavano e facevano i loro bisogni senza nemmeno riuscire a muoversi. D’estate quel grosso produttore di carne s’impietosiva e “bontà sua” dava disposizioni ai suoi dipendenti per bagnare quei poveri animali con un getto d’acqua. Renzo mi dice che ancora adesso quei poveri tacchini sono trattati in quel modo. Con lui mi vedo poche volte, ma tra noi c’è un’amicizia vera accomunata dagli anni e dalla comune passione per l’arte.
A mio padre Giovanni avevo trasmesso la passione per la pittura. Aveva quasi settant’anni quando prese in mano i pennelli per la prima volta: gli regalai una confezione di colori per le feste natalizie, poco prima che morisse la mamma. Da allora continuò a dipingere fin quasi alla sua morte, avvenuta nel luglio del 1989. Mi diceva che non riusciva quasi più a fare la sua firma per il tremore, mentre quando dipingeva non gli accadeva e gli passava anche il dolore alle mani causato da una grave forma d’artrite. Papà dipingeva in un modo così ingenuo che mi commuoveva. La sua pittura era incontaminata e non aveva nessun modello di riferimento; dipingeva come gli uomini primitivi. Dopo la morte della mamma faceva in continuazione un volto di donna che per lui doveva essere quello della sua compagna. Dipingeva anche due persone che volavano via tenendo distese le mani. A volte riusciva a trovare degli accostamenti di colori veramente incredibili. Nel periodo dell’anno in cui stava a Bologna, spesso si chiudeva nella sua camera e passava ore ed ore a dipingere. Ricordo un dipinto in cui c’era lui che chiedeva una grazia a Sant’Antonio: mi sembrava un exvoto.
Nella vecchia casa di nonno Saverio, che si trova nel meridione, a Cesine, la contrada in provincia di Benevento da dove proveniamo, appoggiate al camino ci sono due grandi pietre con dipinti sopra due volti che rappresentano lui e la mamma. Mi mettono addosso una grande tenerezza. Prima che morisse feci a papà un bellissimo ritratto molto somigliante, ma lui mi obbligò a farci più capelli e meno rughe. Era un uomo con un carattere fortissimo; aveva degli incredibili occhi verdi e uno sguardo acceso, da barbaro. Probabilmente lo conservava intatto dai nostri antenati Longobardi che arrivarono a Benevento 1500 anni prima. E’ lo stesso sguardo fulminante che ha ereditato mio fratello Saverio.
Con l’andare del tempo papà sentiva sempre di più la mancanza della mamma; l’interesse per la vita negli ultimi anni si era affievolito. I suoi dipinti diventavano sempre più struggenti ed evanescenti, quasi che volesse dissolversi insieme alla mamma nel dipinto. Le opere che ha fatto mio padre le conservo quasi tutte io; sono gli unici ricordi personali che ho voluto tenermi di lui.
Della mostra a Palazzo d’Accursio fatta nelle festività tra natale e Befana 1996-1997 conservo un buon ricordo; sia per il gran successo di pubblico che per le cose simpatiche che mi sono capitate.
La mostra aveva normalmente parecchi visitatori, ma quel giorno festivo di Santo Stefano all’apertura vidi un’enorme fila che aspettava l’orario d’apertura per entrare. “C....” - mi dissi - “sono proprio diventato famoso”. Quando aprirono una marea di gente prese d’assalto la mostra; vedevo però che la maggioranza delle persone si fermava solo un attimo da me e poi proseguiva per il corridoio. Capii perché; l’Assessore alla Cultura di Bologna Roberto Grandi aveva avuto una grande idea per incentivare la visita dei Musei: i giorni di Santo Stefano e della Befana aveva disposto l’ingresso gratuito per il pubblico in tutti i Musei della Città. La mia esposizione era nel piano sotto al Museo Morandi e la gente era costretta a passarci.
In mezzo a tutta quella gente vidi una persona che dicono mi somigli molto: era Patrizio Roversi che camminava trascinando una carrozzina. Vedevo che osservava le mie opere e poi si guardava intorno. Andai da lui a fare due chiacchiere ed a vedere la sua bimba. Mi presentai e mi fece i complimenti, guardai nella carrozzina ma rimasi di sasso, non c’era dentro nessuno. A vederlo in televisione sembra un tipo un po' eccentrico, ma andare in giro con una carrozzina vuota mi sembra un po' esagerato. Incuriosito gli chiesi dove fosse sua figlia, con la sua grande simpatia mi rispose boh? Che non lo sapeva. Mi disse che nella ressa aveva perso la figlia e sperava fosse con sua moglie Syusy Blady.
Quella mostra era fatta in collaborazione con Piazza Grande il giornale dei Senza Dimora bolognesi, e molti di loro mi vennero a trovare. Una mattina venne Antonio, il francese; era napoletano di nascita ma cresciuto in Francia. Era proprio un bell’uomo, alto, biondo e con gli occhi azzurri. Mi raccontava che in Francia faceva il gigolò poi partecipò ad una manifestazione dove ci furono anche dei feriti, fu preso dalla polizia, processato e rispedito in Italia anche se la sua famiglia era residente in Francia. Senza soldi, senza lavoro, fu costretto a vivere per strada. A Piazza Grande ci sono diverse situazioni di questo tipo. Un altro senza dimora, un ragazzo nato in Germania, ma di padre italiano e madre tedesca fu espulso da quella nazione e spedito in Italia. Anche lui come Antonio diventò un senza dimora. Il francese guardò la mostra, gli piacque in modo particolare una grande scultura dipinta; rappresentava un senza dimora in mezzo ai rifiuti e in compagnia del suo cagnolino. Scrisse su di un cartone, che faceva parte della scultura, il suo nome e cognome ed in francese “c’est moi”(sono io). Soddisfatto mi ringraziò e andò via. Per quella mostra chiesi l’aiuto di una senza dimora che stava al dormitorio bolognese di Via Sabatucci. Gianna era d’origine toscana ed aveva collaborato già ad un’altra mia mostra. Era una donna di 45 anni che aveva avuto una vita particolarmente sfortunata. Non aveva conosciuto il padre ed era stata messa in collegio fin da piccola. Poi andò a lavorare in fabbrica. S’innamorò di un bolognese separato e venne ad abitare con lui a Bologna. Dopo poco tempo il suo compagno morì e lei, che non aveva ancora trovato lavoro qui a Bologna e non avendo potuto legalizzare la sua unione, fu buttata fuori di casa. Gianna è una donna brava ed affidabile. Come in occasione delle esposizioni precedenti stava diverse ore al giorno da sola ma io avevo fiducia in lei. Non le scappava niente e controllava tutte le persone; era gentile e disponibile. Nelle ore con poco pubblico leggeva i romanzi d’amore di Harmony.
Quando c’era poca gente passavo il mio tempo a disegnare i senza dimora che mi venivano a trovare. Il ritratto di Gianna venne benissimo. Dato che l’allenatore del Bologna Renzo Ulivieri venne diverse volte a visitare la mia mostra, dimostrando sensibilità verso i problemi sociali, decisi di donargli il bel ritratto a matita di Gianna. Vidi Ulivieri con gli occhi lucidi quando gli raccontai la storia di quella donna. Rimasi colpito dalla sensibilità di quell’uomo che sembra così burbero e autoritario nel suo lavoro di allenatore. Quando andò via da Bologna gli feci un bellissimo ritratto molto riuscito da angelo senza dimora.
Ritratto di Ulivieri
Un altro ritratto che feci a memoria e che mi riuscì molto bene fu quello di Giovanni, un senza dimora napoletano di colore, figlio della guerra. A Napoli Giovanni non aveva mai avuto problemi per il colore della sua pelle, ma non essendoci lavoro decise di venire a Bologna che, essendo lui di sinistra, considerava la città ideale per lavorare. Faceva l’operaio ed il delegato sindacale e nella nostra città si trovava benissimo. Giovanni era molto generoso ed anche se aveva una casa piccola e due bimbi, decise di ospitare un profugo cileno, un perseguitato politico. Un giorno si trovava al lavoro ma non si sentì bene e decise di tornarsene a casa dove ebbe una terribile sorpresa: trovò sua moglie col cileno. Giovanni si sentiva ferito nell’orgoglio; abbandonò moglie e figli e si licenziò dal lavoro. Da quel momento cominciò a bere ed iniziò così la sua vita di senza casa. Mi diceva che gli extracomunitari arabi lo scambiavano per uno di loro e non credevano fosse italiano. Lo trattavano male perché pensavano si vergognasse della sua gente. Giovanni mi faceva molta tenerezza, era una persona colta e molto sensibile; per Natale andai a comprare per lui un panettone e due bottiglie. Quando gli diedi il regalo non disse niente, mi abbracciò, e andò via con le lacrime agli occhi.
Ho conosciuto tanti senza casa e parlando con loro ho capito una cosa; tutti possiamo diventare come loro: una disgrazia, delle situazioni di vita sfavorevoli, e in un attimo si può finire in mezzo ad una strada.
Lucio Dalla venne a vedere quella mostra due volte e per me fu una grande soddisfazione; oltre ad essere un grande artista è anche un esperto d’arte. Mi fece i complimenti per le opere e mi chiese le ragioni delle ali ai vecchi senza dimora; gli risposi che era già da venti anni che le mettevo ai poveri e la vedevo una compensazione spirituale per le privazioni che hanno in questa vita. Vedendo che erano sereni disse: non hanno niente, non corrono tutto il giorno e sono felici. In queste parole e dalla sua espressione molto seria, ho capito che anche la sua vita, così piena di successi e soddisfazioni, non è così facile come sembra.
Il giorno della Befana come ormai tradizione, il ristoratore Napoleone offre assieme a Lucio Dalla, un pranzo ai poveri di Bologna. In quell’occasione fui invitato anch’io e donai a Napoleone un dipinto raffigurante dei poveri ed a Lucio Dalla una piccola scultura molto somigliante che lo ritraeva con vestiti dimessi di color blu, i guanti rossi e le ali da angelo: cantava al cielo.
Come ho già detto, fin dall’inizio ho sempre fatto delle opere sull’inquinamento e il degrado ambientale. Mi ricordo che feci anche un quadro su Seveso e l’Icmesa, quell’azienda che nei primi anni settanta avvelenò in modo grave una larga parte della provincia milanese con la diossina. Facevo anche scorci di fiumi inquinati. Con l’andare del tempo le opere diventavano sempre più incisive ed efficaci. Nei primi anni in cui dipingevo sentivo che con l’andare del tempo l’ambiente sarebbe diventato un problema esplosivo. In questi ultimi anni ho cercato di far delle opere che aiutino a capire chi le guarda che il mondo animale e vegetale sono parte di noi e che proteggendo loro, proteggiamo noi stessi. Anche se qualche ottuso si è sentito offeso, la maggioranza delle persone hanno guardato con grande attenzione e consenso i tre Cristi fatti a grandezza naturale in scultura. Uno rappresenta un uomo, un secondo un cane (il mio bastardino che, anche se molto amato, costringo a vivere una vita in un appartamento) e un terzo un albero; chissà quali emozioni provano i vegetali senza che noi ce ne rendiamo conto. Con loro non sappiamo comunicare.
Cristo degli alberi (ispirata dalla scultura “Cristo degli alberi)
Urlavo dal dolore quando mi tagliavi i rami
per rendermi più bello ai tuoi occhi
e modellarmi come ti piacevo.
Ma tu non mi sentivi perché sei sordo.
Le mie braccia non erano cresciute casualmente
ma le avevo disposte per cercar meglio la luce, il sole e la pioggia
e poter comunicare.
Sentivo in lontananza il lamento dei miei simili
fatti crescere sui viali come polli in batteria.
Tutti gli anni si ripete quest’orrendo rito
che chiamate potatura.
Con terrore ti vedo afferrare l’accetta
e avvicinarti con lo sguardo spento
come se io fossi un oggetto inanimato
urlo, urlo dal dolore quando mi colpisci
questa volta per abbattermi.
Ma tu non puoi sentirmi perché sei sordo.
Un’altra mia opera molto apprezzata è ‘L’urlo del Bonsai”, un vecchio albero costretto, con l’andare degli anni ad adattarsi in un piccolo vaso. Una cosa veramente orribile. L’anno scorso con grande mancanza di sensibilità la Galleria d’Arte Moderna ha esposto in una spazio molto frequentato le opere di “un artista” che aveva messo in un ambiente buio e in fila su dei ripiani decine di piante vive e, con una intermittenza di circa trenta secondi, provocando volutamente un rumore assordante le faceva vibrare. A me parve che stessero urlando dal dolore. Mia moglie ed io uscimmo sconvolti da quel luogo scuro che sembrava una camera di torture. Sono ancora stupito che in un luogo pubblico abbiano permesso una cosa del genere e che nessuno abbia reagito. Avvertii anche i Verdi di quella mostra, ma non fecero niente. Sono sicuro che fra qualche tempo si scoprirà che il mondo vegetale è cosciente di quanto gli accade intorno. Non c’è speranza per noi se non impariamo a rispettare tutti gli esseri viventi.
Diversi artisti, anche molto conosciuti sono spesso in difficoltà economiche; hanno una fama che li costringe a mantenere elevato il prezzo delle loro opere. Ne conosco alcuni che fanno un’infinità di quadri che vendono a prezzi stracciati ma che però firmano con nomi di fantasia. Molti di questi quadri finiscono nei mercatini e costano poche decine di migliaia di lire. Per uno che conosce l’autore, la sua tecnica ed i suoi colori è facile capire chi c’è dietro il falso nome. Per chi vive d’arte è più conveniente fare così piuttosto che svendere le proprie opere.
Da quella volta ho imparato a non rivelare più la tecnica che uso per dipingere e scolpire. Avevo trovato una tecnica simile all’ affresco che dava degli effetti veramente belli. Quando Giovanni Cardella mi chiese come avevo fatto quei quadri io molto serenamente glielo dissi: dopo pochi mesi fece una mostra utilizzando la tecnica che tanto faticosamente avevo trovato. Si gonfiava il petto quando diceva che l’aveva inventata lui.
I pittori più anziani, mi raccontavano di quel giovane bolognese di famiglia ricchissima che era un grande appassionato d’arte. Un giorno disse: “Da domani mi metto a fare il pittore”. Questo personaggio, avvantaggiato dalla sua disponibilità economica e dalle importanti conoscenze è diventato uno degli artisti italiani più conosciuti.
Ricordo che Sante portò Norma Mascellari a vedere le mie opere esposte nel 1986 a Palazzo Re Enzo. Appena l’artista bolognese vide la prima, un carabiniere ucciso sotto un lenzuolo bianco sporco di sangue, scappò via chiudendo gli occhi ed esclamando ‘Mio Dio’. Con Norma feci in seguito amicizia. E’ una grande artista con una poetica insuperabile ed è veramente generosa; tutte le sue mostre le fa per beneficenza e ha raccolto centinaia di milioni per aiutare i malati, gli handicappati ed i più poveri. Mi stupii molto quando lei, artista così importante mi propose di scambiare una sua opera con una mia. In casa ha due gatti molto anziani che tratta come famigliari.
Un corniciaio che conoscevo, mi raccontò che aveva commissionato per un suo cliente una Madonna ad un mio amico pittore. Francesco L. faceva solo paesaggi e non aveva mai dipinto volti umani ma essendo come al solito in bolletta, aveva deciso lo stesso di accettare l’incarico.
Il corniciaio rimase allibito quando Francesco gli portò il dipinto. Aveva fatto una Madonna completamente velata, le si vedevano a malapena gli occhi. Il mio amico pittore, non riuscendo a fare il naso e la bocca, aveva pensato bene di coprirli con veli.
Nino Beghelli è un mio amico scultore e ceramista. La sua barba lunga e brizzolata gli dà un aspetto michelangiolesco. Ci vediamo poco, ma abbiamo una grande amicizia e stima reciproca. Nino ‘taglia tutto con l’accetta’, quello che ha da dire lo dice in faccia anche se sono cose sgradevoli. Ha un fratello gemello uguale a lui ma senza barba e dipinge. Per chi non lo conosce Nino sembra molto burbero ma è molto dolce e romantico. L’ultima volta che è andato al cimitero a visitare i suoi cari, è andato anche sulla tomba di Sante Lanzerini con cui aveva avuto una forte amicizia. Sulla sua tomba ha lasciato l’invito della mostra che si accingeva a fare; sopra ci aveva scritto “mi manchi molto”.
Sante Lanzerini era il responsabile culturale del Circolo Dozza. Era un partigiano comunista, una persona veramente straordinaria che ha dedicata tutta la sua vita agli altri. Sante correva sempre, era perennemente indaffarato nel cercare di realizzare iniziative artistiche per raccogliere fondi per bisognosi, malati e bambini abbandonati. Era diventato il responsabile della cultura del Circolo ATC Giuseppe Dozza dopo aver lavorato per tanti anni in quell’azienda. Raccontava raramente della sua vita di partigiano, anche se per noi più giovani era un’esperienza eroica e romantica, per lui furono anni terribili pieni di sacrifici e di grandi sofferenze. Mi raccontò che perse un fratello adolescente di 15 anni ucciso dai fascisti. Quest’uomo dall’aspetto modesto e dallo sguardo sveglio e acuto, diventava un carro armato quando doveva raggiungere uno scopo. Se aveva bisogno del Sindaco di Bologna per una sua iniziativa, lo aspettava anche per delle ore; lo braccava fin quando non gli dava udienza e il suo assenso. Il rapporto che si creò tra lui e Norma Mascellani fu bellissimo. Sante l’aveva contattata per una mostra di beneficenza e da quella iniziativa nacque una stima profonda tra i due. Non c’erano persone più diverse di loro. Lanzerini era un comunista, con una moralità che a mio parere avvicinava più lui a Dio che tanti che vanno in Chiesa più per ipocrisia e conformismo che per convinzione; Norma è sempre stata un’artista con una forte religiosità, alimentata da una grande disponibilità verso gli altri. A Sante brillavano gli occhi quando parlava della Mascellani; ammirava moltissimo questa artista, sia per le sue opere che per la sua umanità. Si ammalò di una grave malattia ma appena si sentiva un po' meglio voleva riprendere subito la sua attività, il suo impegno per aiutare gli altri. Quando morì la camera mortuaria era piena di bandiere italiane e bandiere rosse. Tutti i suoi compagni partigiani erano presenti. Il giorno del funerale pioveva ed a me sembrava che anche il cielo piangesse la sua morte. Gli dedicai un’opera “Anche il cielo piange la morte di Sante Lanzerini” che donai a sua moglie Rossana. A Porta Lame, dove ci fu la famosa battaglia partigiana c’è un monumento fatto da un famoso artista che rappresenta due giovani partigiani; un ragazzo e una ragazza. Sono due giovani bellissimi dall’aspetto imponente. Penso sempre come siano poco realistici; quasi tutti i partigiani che ho conosciuto sono come Sante che era magro, non molto alto e con pochi muscoli. Era un uomo vero, in carne e ossa e non una specie di semidio. Prima che morisse ho fatto a Sante il ritratto, sua moglie mi ha detto che quando si alza alla mattina è la prima cosa che guarda e che a volte con quel ritratto parla. Dopo la sua morte esposi una piccola scultura che rappresentava un raccoglitore di cartoni che feci tantissimi anni fa. Alcuni suoi amici la volevano comprare, pensavano l’avessi fatta apposta. Il raccoglitore di cartoni era uguale a Sante. Non ci avevo mai fatto caso, inconsciamente l’avevo immortalato. Sarebbe bello che il Circolo Dozza gli dedicasse qualcosa. Sarebbe anche un omaggio a tutte quelle persone umili come Sante, che in silenzio, con il loro lavoro poco appariscente e la loro abnegazione sono i pilastri di una società: sono quelli come lui che ti fanno ancora credere nella positività dell’uomo. Il suo posto come responsabile culturale del Circolo Dozza è stato preso da Luciano Battistini che conobbi proprio in occasione del funerale di Sante. Luciano mi sembrò subito la persona più adatta a raccogliere quell’importante eredità; Sante gli aveva trasmesso la passione per l’arte.
Da Cristiano, il mio amico pittore e gallerista, ho passato interminabili pomeriggi a parlare d’arte. Lui si considera un erede della tradizione pittorica bolognese. Va a dipingere all’aperto in tutte le stagioni; lo fa dal vero anche se piove e nevica.
Quel ragazzo che parlava come fosse un bambino riconobbe subito le mie opere. Mi disse che aveva in casa una mia scultura che aveva ereditato da suo zio. Quel suo parente era un collezionista, vendeva stufe e raccoglieva quadri e sculture. Mi ricordo che quando andai a casa sua mi chiese se volevo scambiare alcune mie opere con alcune della sua collezione. Quando me le fece vedere, scelsi alcuni quadri che mi piacevano, soprattutto due del pittore naive Pietro Ghizzardi che amo molto. Accettai di scambiarle con due mie belle sculture; una rappresentava una lepre a grandezza naturale impaurita per l’arrivo del cacciatore, era proprio quella di cui era entrato in possesso quel ragazzo. Mi disse che ogni tanto prendeva la lepre e la portava fuori all’aperto per fargli prendere dell’aria. I signori che l’accompagnavano mi esortarono a dirgli che non doveva muoverla in continuazione, altrimenti avrebbe potuto rompersi. Mi è venuto da pensare a come molte mie opere probabilmente sono entrata in un “un’altra dimensione”, diversa da quella per cui le avevo eseguite. E’ commovente pensare a quel giovane-bambino che porta all’aperto quella lepre pensando così di farla contenta.
Quando andai a comprare quel portapacchi, per non correre il rischio di non fissarlo bene lo feci montare dal negoziante, finalmente potevo caricare sull’automobile anche opere di grandi dimensioni. Qualche giorno dopo dovevo portare dei quadri ad una mostra: con il metalmeccanico che lavorava al tornio e quell’aquila che assaliva una volpe avrei fatto un’ottima figura. Inoltre erano opere che non avevo mai esposto. Li legai nel portapacchi con molta cura, assieme alle cornici. Presi la tangenziale e mi avviai verso la Galleria dove dovevo tenere l’esposizione. Andavo agli ottanta all’ora, ma all’improvviso, in un rettilineo vidi staccarsi dall’automobile il portapacchi con i quadri. Caddero proprio in mezzo alla corsia centrale. Accostai immediatamente l’automobile e corsi verso le auto che erano dietro e che andavano ad una velocità sostenuta. Temevo di provocare un grave incidente; con terrore vedevo che le automobili non riuscivano a fermarsi. Alcune schiacciarono il portapacchi con i miei due quadri ancora fissati sopra, proseguivano la corsa. Per fortuna nessuna automobile aveva avuto problemi, non si fermavano perché forse temevano di dover pagare i danni per non aver mantenuto le distanze di sicurezza. In poco tempo il portapacchi fu distrutto ed i miei quadri furono ridotti in poltiglia. Aspettai più di un quarto d’ora prima di riuscire a togliere dalla strada quel che restava. Poi arrivai ad un bidone della spazzatura e buttai via tutto. In seguito andai a protestare da chi mi aveva fissato il portapacchi; mi arrabbiai molto e mi consultai anche con un legale che però mi disse che non potevo provare che l’avesse montato quel negoziante.
Quel malato di mente era un grande artista. Lo conobbi in occasione del mio ricovero per esaurimento nervoso. Aveva all’incirca i miei anni, era sulla trentina e si stava appena riprendendo dalla sua prima grave crisi. Era molto ottimista per il futuro e considerava quello che gli era accaduto un fatto episodico. Quando uscì stava un po' meglio e dopo qualche giorno mi chiamò a casa sua per farmi vedere i suoi dipinti. Rimasi sbalordito, non avevo mai visto niente di simile, quello che vidi era di un’efficacia sconvolgente: il colore era funzionale alla drammaticità delle opere che parlavano di alcolizzati, sbandati e poveri. Pochi artisti mi hanno turbato così; mi sembrava un Van Gogh dei nostri tempi.
Non riuscii a fare un cambio con un suo quadro, come si fa spesso tra pittori. Era molto geloso delle sue opere ed inoltre stava bene economicamente e quindi non aveva bisogno di venderle. In città non era conosciuto perché non aveva mai fatto vedere i suoi lavori. Lo persi di vista per un po' di tempo poi mi dissero che era stato ricoverato per un’altra grave crisi; l’avevano trovato completamente nudo in pieno inverno che camminava sulla tangenziale di Bologna. Telefonai a sua madre che era già vedova da tanto tempo, mi disse che in una crisi aveva preso tutti i suoi quadri e li aveva bruciati. Chissà, forse è stata proprio la sua continua ossessione nella ricerca pittorica a consumare la sua mente.
In questi anni l’ho incontrato casualmente un paio di volte per strada, camminava scalzo e parlava con un interlocutore immaginario. Ho un grande dispiacere per lui, aveva delle doti artistiche straordinarie e una grande intelligenza.
Il diario di Vincent (Van Gogh)
Le orme di mio padre seguirò
pastore d’anime diventerò
sono sempre a veder mostre
adoro i quadri di maestri.
Ma io studierò
servo di Dio io sarò
di nozioni mi han domandato
a per quelle non son portato
e all’esame mi han bocciato
Caro Theo, io sto bene
non gli scriverò che soffro tanto
che l’anima spenta sento
e la mente a volte scappa, scappa via
i colori son calmanti, dipinti sono musica
Mi commuovono i girasoli
quando girano col sole
così bello da copiarlo(imitarlo)
tre in studio ho portato
ma hanno perso l’energia
e son diventati vecchi e curvi.
Caro Theo, io sto bene
a dipingere dal vero
odo gli alberi vibrare
li sento urlar di gioia
quando il cielo è nuvoloso
questo cielo è molto basso
così basso da schiacciarmi
anche ai corvi fa paura
e non voglion più volare, più volare
non voglio più volare
L’angoscia non mio lascia
i pensieri sono cupi
qui mi guardan in modo strano
sembro essere un lebbroso
i colori son nemici
per la rabbia li ho mangiati
mi sento tanto male, da morire
nella testa ho delle voci
mi dicon cose folli
la notte tremo di paura
urlo contro il mondo intero
Caro theo, io sto bene
ormai sono guarito
è stato un attimo di buio
dipingo un paesaggio solo
ma lo vedo con le sbarre, prigioniero, manicomio
fammi uscire, fammi uscire, fammi uscire
Liberato nella casa gialla son tornato
la salute ho ritrovato
ma le voci io risento
e diventan della grida
non sopporto più la vita
e la farò finita.
A mia figlia Elisa ho attaccato la passione per l’arte. Quando i suoi studi universitari glielo consentono legge spesso libri di pittura. Tutte le settimane mi fa comprare gli inserti di un’enciclopedia che parla di tutti gli artisti famosi. Tempo fa fece anche una bellissima recensione alla famosa pittrice Norma Mascellani che tutte le volte che ci vediamo o sentiamo mi fa i complimenti per lei.
Come ho già scritto in “Marucheìn” ho avuto fin dall’infanzia una grande passione per l’archeologia. Spesso mi sono fatto dei “reperti’ con le mie mani. Due o tre anni fa, quando andavo e tornavo dal lavoro notai che sulla destra dalla tangenziale, vicino al cimitero di Casalecchio, la Sovraintendenza stava scavando. Quella zona è particolarmente ricca di reperti; è stata abitata fin dal neolitico e hanno trovato reperti di tutte le epoche.
Senza pensarci su, come mi accade spesso, presi alcuni ‘reperti archeologici’ fatti da me –uno rappresentava una colomba ed era di “epoca romana”, l’altro, una figura umana del “neolitico” - mi fermai con l’automobile a fianco degli scavi. Scesi con le mie sculture dentro una borsini e andai dagli archeologi che stavano lavorando; tirai fuori “ i reperti” dicendo che li avevo trovati proprio lì. Gli archeologi, due ragazzi e una ragazza, guardarono i due pezzi con meraviglia e stupore e, quando mi accorsi che probabilmente le stavano prendendo per autentici, dissi loro che li avevo fatti io. Vidi che ci restarono male e non sapevano cosa dire; decisi di donarglieli, e poi, senza nemmeno presentarmi, andai via. Penso che in quelle circostanze quei ragazzi non mi abbiano preso per uno un po' svitato.
Tutti gli anni andavo a funghi e quando ne trovavo di quelli che potevano essere velenosi, andavo al mercato ortofrutticolo per farli vedere da una micologia. Quella volta, prima di passare da lei, andai a casa e misi dentro il mio cesto tre sculture dipinte che avevo fatto io; due porcini ed una russola. Quando la micologa tirò su i funghi, li separò per famiglie, galletti con galletti e porcini con porcini. Poi, prese in mano il falso porcino e lo guardò perplessa, non riusciva a capire di cosa si trattasse. Io mi misi a ridere e lei, sentendosi presa in giro mi lanciò uno sguardo come se volesse fulminarmi, prese tutti e tre ‘i funghi’ e li mise da parte poi, sempre serissima mi salutò con freddezza.
Mi accorsi più tardi come il Sessantotto fosse stato un periodo storico fondamentale e di grande rottura. Vedevo Franco, un mio amico che frequentava l’università, che aveva iniziato a portare l’eschimo ed i capelli fino alle spalle e che quando lo incontravamo ci raccontava di manifestazioni e occupazioni. Io invece pensavo a come dover fare a guadagnare un po' di soldi, presto sarei dovuto partire per i militari ed ero impegnato a cercarmi un lavoro. Ero andato anche a fare lo sbavatore di metalli da un artigiano che mi pagava in nero un tanto al pezzo; prima avevo un’occupazione migliore ma mi lasciai convincere da Picciuna ad andare a lavorare con lui da quello sbavatore.
Qualche tempo prima avevo conosciuto una ragazza che voleva cambiare il mondo, diceva che dovevamo impegnarci in questo senso. Picciuna la chiamava ‘lotta proletaria’, era piccolina, con gli occhiali ed aveva una grande intelligenza. In seguito lessi sui giornali che era diventata una terrorista ricercata dalla polizia. Da allora non ho più saputo niente di lei. Quando si ricordano alcuni periodi storici, molti pensano che in quel periodo facessero tutti le stesse cose. In realtà chi fa la storia è sempre una minoranza che spesso non ha neppure la consapevolezza di partecipare a grandi momenti di cambiamento. A mio parere il sessantotto studentesco, fu un movimento di studenti piccolo-borghesi che, avevano fretta di prendere gli spazi di potere occupati dai più grandi che per loro avevano una mentalità arretrata. Basta vedere dove sono andati a parare tutti quelli che allora erano più in vista; in molti sono diventati i più strenui avversari della sinistra e dei lavoratori. Aveva ragione Pasolini, quando ci furono gli scontri tra studenti e polizia, si schierò coi poliziotti dicendo che erano loro i veri proletari.
Attraverso le mie opere avevo sempre cercato di sensibilizzare le persone verso la conservazione dell’ambiente. Quando seppi che a poche centinaia di metri da casa mia il Comune di Casalecchio di Reno aveva dato l’ok per iniziare i lavori di due imponenti cantieri, con altre persone organizzammo un Comitato per impedire tutto questo. Le zone, venivano chiamate Zona A e Zona B, ed erano per noi due enormi brutture di diversi milioni di metri cubi di cemento. Era nostra opinione che fossero opere inutili; doveva sorgere un Palazzo dello Sport che si chiamerà in seguito Palamalaguti, un enorme supermercato chiamato Euromercato, allora di proprietà di Silvio Berlusconi e l’Ikea, la famosa casa di mobili svedesi e costruzioni di uso abitativo di diversa tipologia. Tutto questo in poche migliaia di metri quadri e nonostante la popolazione di Bologna che da venti anni sta calando. Sarebbero spariti quei campi a ridosso di bellissime colline. Per me non erano opere solo inutili ma addirittura dannose e non avrebbero creato nemmeno un posto di lavoro aggiuntivo perché, sarebbero si nati posti nuovi ma, avrebbero distrutto tutto il micro commercio e alterato l’equilibrio sociale di tutto il territorio. Casalecchio sarebbe diventata una Città dormitorio senza più identità.
Assieme ad altre persone andavo ogni giorno a parlare con gli abitanti del posto; passavamo casa per casa a raccogliere firme per una petizione contro i due insediamenti. I negozianti non capivano che con quelle enormi strutture molti di loro sarebbero stati costretti a chiudere o a sopravvivere. Ci diedero una mano i Verdi ed io, anche se non ero di quel partito, accettai di candidarmi nelle loro file per raccogliere più voti possibile. Non ci fu niente da fare, continuarono a portare avanti quei progetti senza tener conto di nessuna critica, ed in pochi anni questa bellissima zona è diventata una delle più caotiche della provincia di Bologna. I due rappresentanti dei Verdi una volta entrati in Consiglio Comunale entrarono in Giunta e collaborarono alla realizzazione dei due insediamenti. Il consumo del territorio continua anche attualmente per il completamento delle Zone A e B. L’area A è di grandissimo interesse archeologico. Vi sono testimonianze del neolitico, del periodo etrusco, gallico e romano. A mio parere, lì sotto c’era la storia di Casalecchio. Al posto delle Necropoli gallica e romana, quest’ultima composta di diverse centinaia di tombe, sono sorti degli alti palazzi di un brutto colore. Stanno anche ultimando un’altra colossale struttura che sembra ospiterà una multisala cinematografica. In alternativa si poteva creare un importante parco archeologico. Ciò avrebbe dato un’identità forte a Casalecchio che ora sembra una cittadina americana senz’anima. Le belle colline che si vedevano a chilometri di distanza ora sono coperte da quegli alti e brutti palazzi color nocciola.
Per diversi anni nella sala del Consiglio Comunale di Casalecchio è stato esposto un mio dipinto che rappresentava l’assassinio di Guido Rossa, il sindacalista della CGIL ucciso dalle Brigate Rosse. Da molto tempo da quella sala è stato tolto e non sono riuscito a sapere che fine ha fatto. Di un altro mio dipinto, acquistato dal Comune nell’’84, non ho più notizie, rappresentava una vecchietta che andava al mercato a far la spesa.
Anche una mia grande tela rappresentante una manifestazione operaia che avevo donato al PCI di Casalecchio, venne tolta dalla sala del partito. Poiché non la esponevano più ne chiesi la restituzione. Quell’opera iniziata nel ’74 e finita nell’80 era storicamente datata ma penso che un partito debba conservare nel migliore dei modi la sua memoria storica. A mio parere se l’erano anche legata al dito per la mia battaglia ecologista. Per tanti anni ne chiesi la restituzione ma non ci fu niente da fare, poi per fortuna incontrai un personaggio locale del PDS, una persona molto colta e sensibile all’arte, ancora autorevole, mi disse che si sarebbe interessato alla ricerca dei dipinti. Ogni tanto lo chiamavo per sapere se avesse notizie ma nessuno sapeva non dirgli niente. Poi un giorno mi telefonò dicendomi che l’aveva trovata e che era riuscito a farmela restituire. Con un corriere mi affrettai ad andarla a recuperare, era in un capannone di Sasso Marconi. Quando la vidi mi venne una grande rabbia, era tutta bucata e piena di strappi. Probabilmente l’avevano appoggiata contro il muro e gli avevano preso contro innumerevoli volte con muletti ed altro. Quel dipinto mi era costato innumerevoli mesi di lavoro e vedere con quanto poco rispetto l’avevano trattato mi faceva un gran male, mi sembrava anche che, occultandolo e trattandolo a quel modo, volessero disfarsi di quel che rappresentava. Lo caricai e lo portai nel magazzino dove ho altre grandi opere. Quando entrai e superai la porta dell’ingresso vidi che non passava dalla porta, così decisi di lasciarlo lassù in alto (c’e’ anche adesso) nella attesa di poterlo restaurare e di trovare una collocazione adeguata. Spero che un giorno, quel dipinto, finisca nelle mani di qualcuno che sappia apprezzare l’arte, che porti rispetto per i metalmeccanici anche se in molti, passato il periodo di splendore della classe operaia, hanno scoperto che le tute sono unte e puzzano. Recentemente anche il dipinto su Guido Rossa è riapparso in Consiglio Comunale.
Conobbi Pietro Ghizzardi quando venne alla rassegna annuale del Museo d’Arte Naive di Luzzara. Era già anziano ma aveva ancora un volto candido e dolcissimo, con uno sguardo da bambino.
In seguito lo rividi casualmente all’inaugurazione di una grande mostra che la Galleria d’Arte Moderna di Bologna dedicò a Giorgio Morandi. Ghizzardi portava come il solito un cappello d’alpino e un grande mantello, lo stesso che gli anziani bolognesi portavano fino a pochi anni fa. Mi misi a parlare con lui che, mentre osservava i quadri di Morandi ogni tanto tirava su gli occhi e poi guardava me con sguardo interrogativo come per chiedermi “Ma a questo, come mai gli fanno una mostra così importante?”. Ghizzardi è morto da qualche anno e per il suo funerale volle essere accompagnato alla tomba da un cocchio con sei cavalli bianchi.
C’e’ una persona che da quindici anni vede nascere tutti i miei quadri e le mie sculture. Quando sono giù in cantina a dipingere lascio sempre la porta socchiusa; lo sento arrivare e prima di aprire mi chiede “Sempre al lavoro?”. Io gli rispondo immancabilmente che mi sto rilassando e che dipingere è per me un divertimento. Poi si affaccia con la testa e butta dentro un’occhiata, io apro la porta e cominciamo a parlare (veramente parla sempre lui) di tutto quello che gli è capitato. Questa persona è Giulio, un tranviere di quasi quarant’anni che abita nel mio palazzo. Giulio è sempre incazzatissimo e ce l’ha con il mondo intero, con tutto e tutti, con politici, sindacalisti, amministratori, pedoni che gli tagliano la strada quando guida o quelli che fanno confusione sull’autobus. Praticamente nel suo incazzamento non dimentica nessuno. In realtà è un brontolone bonario ed anche quando dice che sbranerebbe il mondo capisco che in realtà non farebbe male ad una mosca. Si sente tradito da tutti, dalla sinistra, dal sindacato, dai politici. A Giulio gli si illuminano gli occhi solo quando parla di cibo, conosce tutte le cucine regionali italiane con una predilezione per quella pugliese. Ultimamente il medico lo ha messo a dieta perché ha la pressione un po' alta e così, in poco tempo, la sua bella pancetta si è dimezzata. E’ una persona molto disponibile e se c’è bisogno si fa in quattro per aiutarti, come del resto anche gli altri condomini. Per un certo periodo, nel suo tempo libero, si era messo a fare gratuitamente il calzolaio e mia moglie ed io ci siamo fatti risuolare diverse paia di scarpe. Le nostre cantine sono adiacenti e così mentre lui risuolava ed io dipingevo: parlavamo del più e del meno. Ogni tanto si sentiva un colpo di martello un po' sordo, seguito da un’imprecazione. Quando termino le opere mi dice sempre la sua opinione che bontà sua è sempre favorevole. Lui predilige le sculture, soprattutto i vecchi angeli. Tanti anni fa, per scherzo presentò ad un concorso due mie sculture spacciandole per sue, da allora riceve inviti per partecipare a tantissime iniziative, anche fuori dell’Italia.
Spesso la gente dice che le mie opere mettono angoscia e tristezza. I più generosi sostengono che c’è poesia anche se turbano. Parlare di problemi sociali come faccio io con le mie opere, spesso mette ansia perché le persone preferiscono non pensare a cose che fanno male. Qualche anno fa decisi di aprire un nuovo filone, mi misi alla prova facendo sculture che potessero essere apprezzate solo dolcezza e poesia, senza nessun messaggio sociale. Era una serie di vasi di fiori in scultura per i quali mi ispirai ai colori dei muri di Bologna. L’effetto fu molto suggestivo. Tutte le volte che espongo quelle opere decine di signore mi chiedono di comprarle, ma io rispondo che non voglio fare mercato. Le dono raramente e solo a persone che mi sono molto vicine, che apprezzo per quello che fanno o che mostrano una vera passione per l’arte.
Ad una mia mostra al Museo di Luzzara vidi un’anziana signora guardare con tanta simpatia le mie opere. Mi chiese il prezzo ma le dissi che non erano in vendita. Quando mi accorsi che le dispiaceva molto, in un impeto di generosità che ogni tanto mi prende gliene donai una. Mi guardò sbalordita e non seppe cosa dire per ringraziarmi.
Quel sabato pomeriggio ero andato come il solito in cantina a pitturare. In quel periodo andavo nei fiumi a raccogliere pietre e le utilizzavo per dipingere. Avevo già dipinto le pietre nel bosco di Varano e mi era piaciuto molto, anche se era faticoso doverle trasportare. Dipingere sulle pietre è una via di mezzo tra la pittura e la scultura. Quel pomeriggio avevo le idee poco chiare su quello che volevo fare, presi alcune pietre e cominciai a metterle una sull’altra, volevo fare una composizione. Due di queste si prestavano benissimo, sembravano fatte apposta per quello che avevo in mente. Le guardai per un po' per decidere cosa rappresentare poi quando le misi insieme sembravano un busto di persona. Dopo alcuni minuti mi venne l’idea: avrei fatto un guerriero morente”. Cominciai a dipingere la parte superiore: quel volto mi era venuto con lo sguardo angosciato e la bocca aperta per la sofferenza, anche se ci avevo lavorato sopra solo per qualche minuto era già di un’efficacia straordinaria. Quel sasso che avevo utilizzato per il volto aveva un buco appena sopra ad un occhio. Abbozzato il volto cominciai a farci un elmo nero senza l’allacciatura, non mi sembrava ci stesse bene. Ero abbastanza turbato perché quel volto morente era di una grande intensità. Stavo per passare alla pietra inferiore che doveva diventare il busto quando sentii il telefono di casa mia squillare, la cantina è alla stessa altezza del portone dell’ingresso principale, sotto l’appartamento dove abito.
Sentii mia moglie aprire la porta e scendere le scale, aprì la cantina e con voce concitata mi disse che dovevamo correre all’ospedale perché nostro nipote di diciotto anni aveva avuto un incidente in moto ed era molto grave. Andammo da mio fratello Saverio che abita ad un centinaio di metri e corremmo subito all’ospedale Sant’Orsola di Bologna.
Quando arrivammo vedemmo il padre di nostro nipote che era corso all’ospedale direttamente dal lavoro, indossava ancora la tuta blu di fontaniere. Dal suo sguardo capimmo subito che suo figlio era morto. Christian era un gran bel ragazzo: alto, moro con gli occhi scuri e le ciglia lunghissime. Due anni prima lo consideravo un poco superficiale perché gli piacevano i paninari, quei ragazzi un po' qualunquisti che negli anni Ottanta si vestivano con tutti gli abiti firmati. Poi lo vidi l’anno dopo a 17 anni completamente trasformato; indossava un paio di jeans lisi e n una semplice maglietta. Gli dissi che così mi piaceva molto di più e lui, col suo bellissimo sorriso, mi rispose che era maturato e non guardava più le apparenze. Correva su moto in pista e in gara non si era mai fatto niente; era molto bravo per la sua età. Era morto in una maniera assurda, l’incidente era accaduto in una strada cittadina; quel pomeriggio l’aveva chiamato un suo amico chiedendogli di andare a fare un giro in moto con lui. Durante il ritorno a casa, una signora, per sorpassare in curva due ciclisti affiancati aveva invaso la sua corsia. Mio nipote sopraggiungeva dall’altra parte e sfortuna volle che, essendo bravo con la moto, cercò di scansarla quasi riuscendoci. Forse se l’urto fosse stato frontale, avrebbe sorvolato l’automobile e non sarebbe finita così. La Tipo bianca lo prese solo di striscio, quel tanto che bastò per farlo sbandare, cascò per terra, gli si sfilò il casco e andò a picchiare la testa contro un bidone della spazzatura.
Proprio mentre se ne stava andando io stavo dipingendo il guerriero morente. Oltre al dispiacere mi sentivo molto turbato da questa cosa, era morto proprio per una profonda ferita sopra ad un occhio, proprio nella stessa posizione del buco della pietra. Quando andai a vederlo nella camera mortuaria, mi sembrava proprio un giovane e bel guerriero morto in un combattimento assurdo contro un nemico sconosciuto.
Sua madre l’aveva avuto da molto giovane, aveva sedici anni e sembrava sua sorella Con quei suoi capelli lunghi e biondissimi, quel volto tristissimo ancora di bambina, all’obitorio mi sembrava una Madonna che piangeva il suo Cristo morto.
Il giorno dei funerali entrai in macchina e feci salire mia moglie ed i miei figli, poi la misi in moto ma non voleva partire; provavo e riprovavo con la chiave ma, non ne voleva proprio sapere di accendersi. Dopo vari tentativi, innervosito anche dalla possibilità di arrivare in ritardo, riuscii finalmente ad accendere il motore. Inserii la retromarcia e partii ma sentii sotto l’automobile un tonfo sordo, come se avessi investito qualcosa. Scesi e vidi un gatto che rantolava. Rimasi sconvolto, non avevo mai investito animali e quel gatto avrebbe avuto tutto il tempo per andare via. Era come se avesse voluto lasciarsi morire proprio in concomitanza del funerale di mio nipote. Non sapevo cosa fare, per fortuna arrivò il signor Morsali del piano di sopra che mi disse che al gatto ci avrebbe pensato lui. Quel gentile signore sapeva quello che ci era successo e con grande generosità, vedendo il mio turbamento volle provvedere.
Quando il corteo partì per accompagnare Christian nel suo ultimo viaggio terreno, arrivarono diverse decine di giovani in moto che lo scortarono come in parata fino al cimitero. Quando tornai a casa decisi di prendere quella scultura che così tanto mi turbava e di metterla dentro un armadio chiuso. In quel periodo cercai di stare il più vicino possibile alla mia sorellina più piccola e di consolarla come meglio potevo. Decisi di fare una pietra dipinta: un ragazzo con le ali da angelo che correva con una moto tra le nuvole. Una volta fatta la misi dove è morto mio nipote (è ancora in quel posto), proprio all’ingresso di un Centro Anziani in Via Longo. Ogni tanto andavo in raccoglimento in quel luogo e dopo alcuni mesi, una mattina, mi accorsi che il santino era tutto scolorito, il sole e la pioggia ne avevano tolto il colore in alcune parti. A me dispiaceva, mi sembrava che pian pianino sparisse anche il suo ricordo. Presi in mano il santino e stupito vidi che in moltissimi punti col bianco del fondo si erano formate le sue iniziali.
Meravigliato lo portai a casa e feci vedere a mia moglie ed ai miei figli quello che avevo notato. Girando il santino, mio figlio Lorenzo scorse proprio sulla testa di suo cugino una parola nitida, paradiso. Anche in casa di mia sorella i segnali del suo passaggio furono molteplici.
Passato il turbamento dei primi tempi e riflettendo a mente fredda decisi di ritirare fuori la scultura dipinta del guerriero morente e di metterla sul comò che avevo in cantina di fianco a dove dipingo. Penso che mio nipote abbia voluto utilizzare la mia passione per la pittura e salutarmi in un modo originale e per far capire a tutti noi che lui era ancora vicino, anche se in modo diverso.
Adesso la prima cosa che faccio quando vado giù a lavorare è quella di accarezzare la testa del guerriero morente.
Finalmente ero riuscito ad andare a Roma. Da quando ci siamo sposati mia moglie ed io desideravamo andare a passare qualche giorno in quella straordinaria città così ricca di storia, di cultura e d’arte.
Ora potevamo permettercelo, i nostri due ragazzi erano finalmente diventati grandi e la nostra situazione economica era migliorata. Alloggiammo in una strada del centro vicino a Trinità dei Monti, in un convento di suore che affittavano camere. Subito andammo a vedere il Vaticano e la cattedrale di San Pietro. Appena entrammo vedemmo la Pietà di Michelangelo. Stranamente in quel giorno feriale di Aprile c’era relativamente poca gente. Quando vidi il capolavoro stetti lì davanti in contemplazione per più di mezz’ora. La scultura era di una bellezza incredibile; non eccessivamente grande, poco appariscente e di una concretezza veramente insuperabile nella sua armonia. La luce fioca, calda e soffusa, gli dava una grazia veramente divina. In quel momento ero solo, Floriana aveva proseguito la visita all’interno della Basilica e mi prese la commozione, non avevo mai visto niente di così intenso e naturale. Il marmo, per me non era più bianco, i volti della Madonna e di Gesù Cristo erano diventati di carne viva, mi sembrava che in quei corpi sofferenti scorresse la vita. Sentii le lacrime scendermi lungo le guance. In quel momento pensavo di essere un uomo veramente fortunato per aver avuto la possibilità di ammirare quel capolavoro e di vederci cose che probabilmente altri non coglievano, riuscivo ad apprezzare fino in fondo la bellezza e l’intensità che quella scultura emanavano.
Ci sono artisti che hanno la dote di trasmettere la loro grande energia alle proprie opere. Michelangelo era riuscito più d’ogni altro a trasmettere quell’energia, quell’energia vitale che si era conservata nel corso dei secoli.
Proseguii la visita nei Musei Vaticani, vidi il Giudizio Universale con la sua grande potenza espressiva. Stetti una giornata intera nella zona archeologica dei Fori Imperiali, vidi la bellissima Fontana di Trevi e il suggestivo Pantheon. Ma non c’era niente di più bello della Pietà. Quando andai a casa mi volli fare una mia Pietà Naive. Feci una grande scultura dipinta, quasi a grandezza naturale. Rappresentava un Senza Dimora morente a causa dell’indigenza in cui li condanniamo, un altro lo abbracciava per sorreggerlo e confortarlo. L’intitolai “La solidarietà”.
Quell’anziana signora mi venne a trovare alla mostra che stavo facendo nella Sala Silentium di Vicolo Bolognetti. Si presentò e subito capii chi fosse; era la moglie di un mio vecchio amico che aveva fatto la Resistenza e che era scomparso da qualche anno. Era un uomo colto e di grande levatura morale e aveva scritto diversi libri sulla resistenza, sulla sua esperienza di giovanissimo partigiano già diplomato da maestro, che insegnava e istruiva i suoi compagni.
L’avevo conosciuto più di venti anni fa in occasione di una mostra che avevo fatto nel quartiere Santa Viola di Bologna. Allora ero un giovane pittore che guardava con ammirazione questi personaggi già leggendari. Mi aveva affascinato con le sue storie. Ricordo i suoi capelli candidi, il suo viso aperto e dolce, aveva un grande carisma e sembrava impossibile che una persone dall’aspetto così mite avesse impugnato le armi.
Lo rividi all’inizio degli anni novanta, quando abitavo già a Casalecchio. Quando il P.C.I diventò PDS, lui scelse di andare con Rifondazione Comunista. La signora mi disse che dopo la morte di suo marito trovò in un armadio in cantina due miei quadri incartati. Voleva essere sicura che fossero i miei. Mi ricordai che quel mio amico li aveva acquistati ad una mostra, mi disse anche che non li avrebbe attaccati al muro perché non aveva posto. Andai a vederli; erano due miei volti, un muratore e un anziano clochard. Erano molto belli e gli chiesi se voleva vendermeli. Lei mi disse di no, anzi, voleva acquistarne un altro e metterlo assieme a quei due che aveva trovato. In casa avevo ancora un libro di suo marito con sopra una sua fotografia. Avevo una grande rispetto e ammirazione per quell’uomo e decisi di fargli il ritratto. Venne molto somigliante e telefonai a sua moglie dicendo che avevo bisogno d’incontrarla. Andai a casa sua, e quando le feci vedere il ritratto e glielo donai, prese un fazzoletto e si asciugò le lacrime.
Ad una mostra personale che feci l’anno scorso una sera vidi entrare due giovani sulla trentina. Guardavano le opere una per una e stettero dentro un bel po' di tempo. Finita la visita sì mi si avvicinarono ed uno dei due in un italiano corretto ma dall’accento vagamente straniero mi chiese se potevo fargli un quadro rappresentante la facciata del suo negozio. Gli dissi che non facevo quadri su commissione ma incuriosito dalla strana richiesta gliene chiesi la ragione. Mi spiegò che erano due profughi bosniaci-musulmani, che avevano dovuto abbandonare la loro zona perché occupata da bosniaci-serbi. Il negozio era di loro proprietà e avevano dovuto abbandonarlo per non essere uccisi. Sentivano tanta nostalgia della loro terra, mi dicevano che prima della guerra là era un paradiso; che bosniaci-musulmani e bosniaci-serbi erano convissuti senza problemi per centinaia d’anni. Tutto era cominciato quando iniziò il dissolvimento della Yugoslavia, prima con screzi verbali poi, man mano che passava il tempo i contrasti aumentavano, fino a raggiungere quelle atrocità che tutti conosciamo. Mi dissero che non sarebbero più potuti tornare in patria perché la loro zona ora era sotto l’influenza Serba. Anche se fossero tornati sarebbe stato impossibile passare, in Bosnia adesso c’è un confine ogni venti chilometri. Mi venne un brivido, pensai al nostro bel Paese, il più amato del mondo, bellissimo anche per le grandi tradizioni storiche che ciascuna regione possiede, che ciascuna rivendica con orgoglio. Ho pensato con rabbia a quei geni cattivi che stanno soffiando sul fuoco della divisione. Che cercano diversità etniche che non ci sono, che credono di poter controllare un fenomeno disintegrativo e che pensano di creare una nazione che esiste solo nella loro fantasia. Le grandi tradizioni di ciascuna regione, di ciascuna città stanno emergendo con forza. Già i leghisti veneti vogliono staccarsi da quell’immaginaria Padania, rivendicando autonomia dalla Lega. Mi auguro ancora con tutto il cuore di non dover passare quelle assurdità che stanno vivendo quei due giovani. Da meridionale cresciuto a Bologna mi sono sempre sentito offeso dal linguaggio da giocatore di biliardo di certi leghisti. In me e in tanti italiani d’origine meridionale è riuscito a risvegliare l’orgoglio delle nostre radici. Noi meridionali residenti al nord con i nostri figli avuti con donne e uomini locali ci batteremo con tutte le nostre forze per non far dividere il nord dalla nostra terra d’origine. Tra quelli residenti in Italia e gli altri del resto nel mondo noi italiani del sud siamo più di ottanta milioni e se saremo in pericolo ritroveremo il legame che ci unisce e affratella tutti. Due anni fa decisi di fare una grande opera pittorica su questo tema; l’intitolai ‘Faranno solo macerie’. La figura centrale è uno scheletro che impugna una bandiera verde sopra ad un mucchio di rovine.
Da quando dipingo e scolpisco mi hanno appioppato diversi soprannomi: ‘Ligabue’, quando fecero il telefilm sulla sua vita, ‘Al Pitur’, ‘pittore’ e altri; uno che mi piace molto ed è particolarmente efficace è ‘il Pitto’. Questo nome d’arte me lo ha messo un mio compagno di lavoro che tutti chiamano Picchio perché ha sempre voglia di scherzare. Lavora in fabbrica con me nel reparto montaggio ed ha circa trentotto anni. È piccolo di statura, robusto e perennemente scuro di carnagione perché nel suo tempo libero è sempre sulle rive dei fiumi a pescare.
Picchio è un personaggio veramente originale, di una simpatia unica, a volte un po' pesante ma sempre efficace. Tutti quelli che gli passano di fianco li acchiappa per le spalle e lì scossa per circa un minuto. A volte alla mattina ti alzi male o sei di cattivo umore e l’ammazzeresti per questo suo divertimento. Lui ti spunta da dietro e ti dà il buongiorno con una bella scossata. Una delle sue vittime preferite è al Gal a cui cambia il soprannome una volta alla settimana, l’ultimo ‘l’Aquadella (un piccolo pesce d’acqua dolce) del Biachesi’ (un lago artificiale che si trova nei pressi di San Lazzaro di Savena). Mi hanno raccontato che Picchio una volta si trovava in un bar di Ferrara dove c’era uno di spalle che credeva un suo amico, gli si avvicinò pian pianino e all’improvviso gli diede una bella scossata, questo signore si girò di scatto e vedendo questo sconosciuto che lo scuoteva, ci rimase tanto male che non gli disse niente. In questo periodo vanno di moda le ‘prese ittiche’ Ti fa sentire come ti toccherebbe la piovra, il pesce martello, le murene ed il luccio. L’altro giorno mi si è avvicinato e mi ha detto “Pitto, ti faccio sentire il tocco della medusa”. È stato veramente micidiale, mi ha trasmesso proprio quella sensazione di malessere che provi quando ti tocca quell’animale. Quando siamo in mensa la prima cosa che fa è quella di allungare le braccia e scossare contemporaneamente la Marta e il Guitre che per un minuto non riescono a infilare un boccone in bocca dal gran che scossano. Quando lui mangia è girato di spalle davanti a me e mi aspetta al varco. Aspetta che io finisca di mangiare e passi con il vassoio in mano, con la coda dell’occhio controlla sempre quando mi alzo per afferrarmi e darmi la solita scossata che fa vibrare i piatti e il bicchiere sul vassoio, come se ci fosse il terremoto. Ormai sono già passati otto anni da quando ho iniziato a lavorare in questa fabbrica, non c’e stato giorno che non ho ricevuto in mensa la mia scossata giornaliera. Ho provato a far delle finte per veder se abboccava, ma non c’è niente da fare; è come un camaleonte che vede anche di dietro. Una volta al Gal e Picchio litigarono; erano in fila per andare a mangiare, Picchio cominciò a toccarlo per fargli sentire tutte le ‘prese’ dei pesci ed intanto gli urlava ‘scardola’. Al Gal gli disse in ferrarese (sono di quella città tutti e due) “Sta bon parchè in quo a son de pruvar il lent a cuntatt” (stai buono perché oggi mi sto provando le lenti a contatto), Picchio gli rispose “a tal dag mi il lent a cuntatt” (te le do io le lenti a contatto) e gli assestò una bella scossata. Al Gal si girò di colpo e gli saltò addosso. Lo scontro fu terrificante, i due giganti di un metro e mezzo rotolarono avvinghiati per diversi metri e all’improvviso non li vedemmo più, sempre rotolando erano usciti dalla mensa. L’epico scontro fu vinto tra le meraviglie di tutti dal Gal che sembrava molto più esile di Picchio che ha l’aspetto di un torello. Una sera a casa sua Picchio si trovò davanti ad una scena veramente incredibile; non aveva chiuso bene il sacchetto di bigattini che aveva appeso alla maniglia del balcone ed a migliaia strisciavano per la casa, prese la scopa per ramazzarli ma questi scappavano da tutte le parti. Dopo diverse ore passate a rincorrerli e a stanarli, ebbe un’idea, prese il baygon e cominciò a darlo dappertutto, in ogni buco e angolo della casa. Questi bigattini nel giro di pochi giorni sarebbero diventati mosconi e quindi doveva assolutamente sterminarli. Non contento del risultato e per pulire un po' la casa decise di passare dappertutto con uno straccio imbevuto di trielina. Distrutto ma soddisfatto si buttò sul letto a dormire. Aveva trasformato la sua casa in una camera a gas, la miscela di trielina e baygon fu micidiale, si alzò con un mal di testa terribile e cercò di andare in bagno ma crollò svenuto per diverso tempo. Quando si riprese, vomitò anche le orecchie. Dopo alcuni giorni tornò a lavorare, stava così male che per alcuni giorni non mi scossò.
Picchio sembra una persona superficiale perché ride e scherza in continuazione, ma quando parli con lui di cose serie ti accorgi che è molto sensibile e più riflessivo di tanti altri. Molte volte mi è venuta la tentazione di dargli una vassoiata in testa quando in mensa mi scossa.
Mirto è un mio compagno di lavoro del reparto officina. Ha all’incirca la mia età e anche lui come me ha già i capelli bianchi. Quando passo per l’officina ci scambiamo sempre l’opinione sugli ultimi avvenimenti politici. Una sera passai da casa sua con suo cognato Ivano. Mirto aveva solo un po' di febbre anche se da come si lamentava sembrava stesse per morire. Abita nella prima periferia di Bologna, in una vecchia casa che ha comprato dieci anni fa. Arrivato a casa sua rimasi colpito dal bellissimo albero che aveva nel giardino, un maestoso cedro del Libano più che secolare. Mirto ha con questo albero un rapporto di amore e odio. Gli crea diversi problemi per la perdita degli aghi, è costretto spendendo molti soldi a dover tagliare certi rami che sporgono, e la resina all’inizio dell’anno è copiosa e impregna tutto quello che c’è sotto, per la neve che se è abbondante può rompere qualche ramo e far male a qualcuno che passa sotto. D’altra parte è così bello da sembrare un monumento della natura e accoglie tanti uccelli sui suoi rami. Mirto non lo taglierebbe mai anche perché è figlio di contadini ed ha uno spirito poetico. Scrive poesie, e qualche tempo fa ne ha scritta una che ha dedicato al vecchio frigo che aveva in officina e che ha dovuto cedere ad un altro reparto per conservare degli speciali collanti che devono stare a bassa temperatura. La poesia fa così:
Il mio frigo
Quando entro al mattino
non vedo più la tua immagine
quell’ombra, che illuminata dal sole
vedevo con la coda dell’occhio
Il primo passo lo facevo verso di te
accendevo la luce e la tua vernice
brillava di bianco
Mi donavi serenità, tanta freschezza
a volte mi sedevo sopra di te
per farti un complimento.
Quando ti vedevo tutto pieno
ti staccavo la corrente
per poterti sbrinare
e mentre ti asciugavo
ti facevo tante carezze.
Caro
dodici anni assieme
non si possono dimenticare in un attimo
perché un ‘diavolo’
ha deciso di separarci per un collante.
Spero gli si attacchi in quel posto
perché tutto questo non è niente
in confronto al dolore e alla rabbia
che sto provando in questo momento.
Ciao, anzi ADDIO.
Un giorno feci a Mirto uno scherzo. Ridendo, dice, che ‘far quella cosa’ è solamente fatica, che non ne ha più voglia. Feci una scultura a grandezza naturale di un pene molto curvo e provato, era così stanco che gli fatto anche la lingua di fuori. Gli dissi che il titolo di quell’opera era ‘Ritratto di Mirto, la fatica di vivere’. Quando la vide rise molto e voleva che gliela regalassi.
L’ho nascosta da qualche parte perché m’imbarazza se la vedano i miei figli.
A mirto è rimasta nel cuore la sua infanzia vissuta in campagna e la domenica pomeriggio, appena ha un attimo di tempo, prende i resti del pasto e li porta al vicino laghetto; dà da mangiare ai pesci e agli uccelli acquatici che ci vivono. Un lunedì mattina, vedendo Mirto giù di corda gliene chiesi la ragione, seriamente mi rispose che gli era “morta l’oca”. Dopo aver visto quell’imponente opera della natura che era il suo albero, feci un grande altorilievo che esposi al Museo dei Naive di Luzzara dal titolo “l’albero di Mirto parla col cielo”.
Qualche anno fa andai in ferie in Toscana, a Talamone. A me non piace stare in spiaggia a prendere il sole e tutti i giorni partivo da solo e andavo a visitare la bellissima Maremma. Un giorno capitai alle foci di un piccolo fiume e mi misi a guardare tutta il materiale che la corrente trasportava sulla riva. C’era di tutto, bottiglie, scarpe, scatolette e altro. Vidi una piccola tavoletta di circa trenta centimetri di lato e dato che avevo finito le tele da dipingere presi un ramo e la tirai a riva. Quando la presi in mano vidi che in una facciata si vedevano dei colori molto sbiaditi; con la mia fantasia vedevo un volto nitido. Tornai nella pensione dove alloggiavo e rinforzai quei tratti appena visibili. Mi venne fuori un bellissimo volto di donna che conservo ancora. Gli diedi il titolo ‘La bella venuta dal fiume’.
La cantautrice Antonietta Laterza la conobbi in occasione dell’esposizione a Palazzo d’Accursio. Lei presentava ai giornalisti, nella Sala Stampa del Comune adiacente alla mia mostra, lo spettacolo che teneva assieme ad altri artisti per il giorno della Befana ‘La befana vien di notte’. Antonietta è costretta fin dalla tenera età a stare su di una sedia a rotelle a causa di una poliomielite. Alcuni mesi prima mi ero commosso, leggendo sul giornale che il suo compagno era morto d’infarto mentre accompagnava Antonietta ad una manifestazione artistica. Lei mi disse che l’ultimo sguardo di Nico era rivolto a lei, che non era uno sguardo di paura della morte ma di angoscia per doverla lasciar sola. Nico era nato in Argentina da genitori d’origine italiana, di Campobasso. Era un giovane fotografo professionista che andava per le strade a fotografare le terribili condizioni in cui versava gran parte della popolazione sotto il regime militare che c’era allora in quel paese. Con l’andar del tempo, gli era montata una grande indignazione per tutte quelle ingiustizie e aveva abbracciato la causa di un gruppo rivoluzionario che combatteva contro la dittatura. Al regime cominciava a dare molto fastidio quel ragazzo che andava a fotografare i bambini poveri nelle barraccopoli di disperati che circondavano Buenos Aires. Quando Nico vide che diversi suoi amici che avevano abbracciato la sua causa venivano scoperti e sparivano (desaparecidos) senza lasciar più tracce, decise di scappare. Venne in Italia, la terra dei suoi padri e chiese asilo politico.
Conobbe Antonietta, s’innamorarono e andarono a vivere insieme. Come è capitato a diversi rifugiati politici non riuscì a fare il suo mestiere. Trovò lavoro da operaio metalmeccanico in una grande fabbrica bolognese. Mi raccontò Antonietta che Nico nell’ultimo periodo di vita era molto preoccupato per la crisi che aveva la sua fabbrica. Scaduto il periodo di cassa integrazione temeva il licenziamento e di non aver più mezzi di sostentamento per lui e la sua compagna. Antonietta serba uno struggente ricordo di questo sognatore idealista. Un ricordo bellissimo e un dolce rimpianto. Quando lei venne a vedere le mie opere ci facemmo i complimenti a vicenda. Io l’avevo già sentita diverse volte cantare, mi piaceva molto la sua dolcezza. Ci scambiammo l’indirizzo e l’andai a trovare dopo qualche tempo nella sua casa assieme a mia figlia Elisa. Parlammo molto delle nostre esperienze, Antonietta mi parve subito una persona molto dolce e forte. Ha una determinazione, una forza di carattere veramente straordinaria, quando parli con lei dopo qualche minuto il suo handicap non lo vedi più. Le promisi di farle il ritratto che realizzai dopo qualche tempo, la ritrassi con la sua chitarra in fondo al mare mentre sorrideva in modo enigmatico, come fosse una sirena.
Questa sera ho visto la trasmissione di Pippo Baudo su Padre Pio. A parte la solita retorica sulla bontà, mi è venuto in mente un episodio di due anni fa. Molto tempo fa avevo acquistato da un rigattiere un baule pieno di libri. Li avevo accantonati in un armadio e dopo molto tempo, nel riprenderli in mano, trovai un libro su Padre Pio scritto da un bolognese nel Trentadue, quando Padre Pio era ancora un giovane frate sconosciuto. Padre Pio è nato a Pietrelcina in provincia di Benevento, a pochi chilometri da dove sono nato io. Anche se il libro molto raro, l’avrei donato volentieri al piccolo Museo che c’è a Pietrelcina. Trovai il sito Internet e l’indirizzo di posta elettronica del museo, scrissi dell’offerta del libro spiegandone le motivazioni e cliccai invia. Nell’attimo stesso in cui spinsi il tasto sentii un rumore di scoppio dietro le spalle come di qualcosa che si rompeva. La stanza si fece buia. Mi girai e vidi la lampadina rotta per terra, si era svitata ed era caduta frantumandosi. Raccolsi i resti della lampadina e li misi in una busta che conservo ancora. Quando ci penso non so darmi una spiegazione logica di quanto è accaduto. In Padre Pio rivedo i tratti somatici di mio padre e quella dolcezza burbera e riservata unita ad un animo sognatore tanto comune nella gente del Sannio.
Quest’anno sono andato in ferie a Casa Moschini, lì c’è la casa paterna di mia moglie che stiamo pian piano ristrutturando. E’ un’abitazione in sasso come tutte quelle di lassù, a 960 metri sul livello del mare. Casa Moschini è un paese abbandonato dagli anni Sessanta, gli abitanti sono tutti emigrati nelle province di Bologna e Firenze. Qui ci abitano l’anziana Maria, che ha già 84 anni ed Ennio, che ne ha molti di meno, ma è già in pensione; lui sta in un altro paesino limitrofo, ma nei mesi caldi non resiste e si rifugia lì, da solo. E’ un eccellente muratore e si sente il protettore del paese.
Già l’anno scorso Isidoro, che abita vicino al Poggiolo, un paese di tre case che si trova a circa cinquecento metri da Casa Moschini, mi propose di fare il dipinto di Bartolomeo Evangelisti (lassù hanno tutti lo stesso cognome) nella cappella a lui dedicata. Bartolomeo è stato missionario in India e prima di morire ha espresso il desiderio di costruire una cappella in quell’altura. Ennio ha costruito questa cappella da solo, tutta in sasso, molto pittoresca. Isidoro, che mi conosce da molto tempo, mi ha proposto di dipingerci qualcosa. Prendendo spunto da una foto del missionario ho dipinto il suo ritratto sul sasso nella nicchia centrale; mi pare sia risultato un bel lavoro e quindi Isidoro mi ha proposto di affrescarla anche con altri soggetti a mio piacimento. Ho realizzato un indiano che coltiva il grano, un povero con le ali (uno dei miei caratteristici angeli) e un cane, anch’esso con le ali. Poi ho proposto a mia volta ad Isidoro di scrivere alcune frasi che il Vescovo pronunciava speso quand’era in vita. L’effetto della cappella così dipinta è molto particolare e mi pare proprio che sia diventata ancor più bella e originale. La mia idea era di andare al di là degli stereotipi di santi e Madonne classicheggianti e di citare anche gli animali cha a mio parere dovrebbero essere messi sullo stesso piano dell’uomo poiché sono anch’essi creature di Dio. Subito Isidoro era sembrato molto soddisfatto del lavoro. Era poi particolarmente contento perché l’indiano che avevo realizzato trovava fosse a lui somigliante. Già quando mia figlia ed il suo ragazzo erano andati a visitare la cappella lo stesso Isidoro aveva detto che i dipinti gli piacevano molto, aveva solo qualche perplessità circa il cane con le ali. Ma…Ieri sono tornato a Casa Moschini per raccogliere qualche fungo dopo tutta l’acqua di questi ultimi giorni. Negli ultimi tempi mi sono fatto più scaltro e non seguo più la strada; già l’anno scorso mi sono preso una multa di 312.000 lire e non ho voglia di ripetere l’esperienza. Oltretutto erano funghi non commestibili e raccolti nel terreno di mia moglie; mi sono incazzato come un uomo, ma non c’è stato niente da fare. Sono andato dai carabinieri e pure dal difensore civico, ma ho dovuto pagare ugualmente. Quel giorno ho incontrato Ennio, come al solito aveva una cazzuola in mano (un po’ come la coperta per Linus), mi passa a fianco e mi dice”non è mica colpa tua”, non capisco cosa dice. Poi ripete “non è colpa tua, ma di Isidoro”. Finalmente capisco, si riferisce ai dipinti della cappella. “Come si fa a toglierli?”, mi chiede, io rispondo, alterato, che quei dipinti mi sono stati chiesti da Isidoro che è il proprietario del terreno e che non deve azzardarsi a toccarli altrimenti lo denuncio per danneggiamenti. Ennio dice “Isidoro era al mare mentre io facevo la cappella e anche quelli di Casa Trogoni hanno detto che è una cosa vergognosa”. E poi come ti sei permesso di andare a sporcare quei sassi, è come sporcare questi” ed intanto muove freneticamente le mani verso i sassi di casa sua. E ancora ha continuato “un cane, hai fatto un cane e ci sono anche delle scritte”. La scritta in realtà è una sola e riguarda un pensiero che aveva espresso Bartolomeo “Se sei triste o depresso guarda il cielo, oltre le nuvole c’è sempre il sole”. Ennio aggiunge ancora “e adesso ci andranno pure a fare l’amore lassù”. In realtà la cappella è a 1000 metri di altezza e per raggiungerla bisogna attraversare a piedi un sentiero in mezzo ai boschi, camminando per dieci minuti in salita. E il centro abitato più vicino è a mezz’ora di macchina. Figuriamoci se hanno bisogno di andare fino a lassù. Vedremo come andrà a finire, certo mi dispiacerebbe molto se le mie opere venissero cancellate o distrutte, stanno molto bene in quel posto.
Silvia è una mia collega di lavoro molto efficiente e determinata, con lei ho contatti di lavoro tutti i giorni. Lavora all’Ufficio Approvvigionamento e mi indica le priorità di collaudo che devono avere i pezzi che entrano. Dal momento in cui me lo indica il pezzo urgente diventa la cosa più importante della sua vita. Non molla l’urgenza fino a quando, per sfinimento del sottoscritto o di Enea, non controlliamo quello che ci ha chiesto. Spesso mi mette in difficoltà e in imbarazzo. È difficile sapere quali sono i particolari che le servono per primi; sui fogli delle urgenze ne troviamo diversi che hanno la priorità. Il difficile è capire se le serve prima quello evidenziato ‘urgente’ o ‘razzo’, ‘razzissimo’ o ancora ‘immediato’. Tra razzi e razzissimi è facile capirlo; la difficoltà sta tra i razzi, gli immediati e gli urgenti. Mi do una grattata in testa e scelgo; non ci prendo mai, se faccio il razzo le occorreva l’immediato oppure il molto urgente. Dopo poco tempo ricevo una telefonata, con tono da sergente mi dice: “come mai non mi hai controllato il razzo?”. Gli rispondo che ho fatto l’immediato. Lei mi dà la solita risposta; “quante volte ti devo dire che tra un razzo e un immediato il razzo ha sempre la precedenza?”. Secondo me lo fa apposta per farmi arrabbiare. Immagino quei poveri fornitori bombardati telefonicamente fino allo sfinimento. Siamo fermi, così fai fallire la fabbrica; abbiamo la produzione bloccata, senza quel pezzo non possiamo spedire le macchine ecc. A volte mi altero un po', mi trovo il foglio delle urgenze con in elenco quaranta particolari. Conto i contenitori dei pezzi, sono trenta; le chiedo spiegazioni e col solito tono militaresco mi dice che le altre dieci urgenze stanno per arrivare. Già che c’è, mi dice di tener d’occhio l’entrata della merce perché quel determinato pezzo che deve arrivare ha la precedenza assoluta. Ogni tanto Silvia mi dice che giacché la stresso (io?) le devo regalare un quadro.
Una sera avevo un dipinto che non voleva proprio saperne di essere accettabile, era orrendo; più ci lavoravo e più peggiorava. Dal nervoso lo presi gli feci dei buchi e lo appallottolai in un rotolo che buttai in un angolo. Quando Silvia tornò alla carica per il dipinto che le dovevo regalare, mi venne in mente quella schifezza stracciata e arrotolata; il giorno dopo le portai quella specie di palla di tela e gliela diedi. Lei mi guardò un minuto senza dirmi niente; io le raccontai che ogni tanto facevo delle opere così e venivano bene, era una tecnica nuova e originale. Lo prese, scossò la testa, mi disse se ero impazzito e andò via. Spesso sorridendo le chiedevo se aveva incorniciato quel dipinto. Una mattina mi chiamò nel suo ufficio e mi fece vedere il quadro incorniciato e debbo dire che era anche piacevole, aveva dei colori particolari. Le chiesi come c’era riuscita a metterlo a posto, mi disse che un giorno stava facendo il bucato e le venne in mente il mio dipinto. Lo prese lo bagnò, lo distese e lo mise appeso con due mollette sui fili in terrazza ad asciugare assieme al bucato, poi lo prese, gli diede una bella stirata e lo portò ad incorniciare.
Questa mattina sono andato all’Istituto Comprensivo di Borgo Panigale di cui fanno parte la scuola elementare G. Mazzini (dove ho fatto le elementari) e le scuole medie A. Volta. Sono stato contattato dalla signora Liviana, una mamma del Consiglio d’Istituto, per ritirare le fotografie scattate in occasione dell’esposizione di pittura e scultura che ho fatto nella scuola dal 19 maggio al 15 giugno del 2001. Sono affiorati ricordi di una mostra che è stata molto particolare rispetto alle altre che ho fatto precedentemente. In quell’occasione fui contattato da un’altra mamma del Comitato dei Genitori. Quella giovane signora era già venuta a visitare alcune mie mostre con le sue bimbe ed alcuni anni fa aveva assistito alla presentazione del mio libro “Maruchèin”, presso le vecchie scuole elementari.
La mostra era una scommessa, non era ancora capitato che si realizzassero in una scuola pubblica esposizioni di pittura e scultura così impegnative, sia per la quantità di opere che per le tematiche trattate. Infatti nelle mie opere parlo spesso di inquinamento, emarginazione sociale, solitudine, razzismo e consumismo; alcune di queste sono di difficile lettura e osservate superficialmente possono dare adito ad interpretazioni diverse rispetto a quello che voglio esprimere.
Ricordo la prima volta che ho scaricato alcune opere durante l’allestimento della mostra. Ero con mio figlio Lorenzo che mi dava una mano quando vidi diversi ragazzi che dal primo piano della scuola ci guardavano scaricare le opere; uno di questi si affacciò e per diverse volte sentii che si rivolgeva a me urlandomi “Maruchèin, Maruchèin”, per schernirmi. Pensai “cominciamo bene”.
Per l’allestimento della mostra chiesi l’aiuto di Luciano Pantaleoni di Correggio, un giovane architetto, appassionato d’arte che ho conosciuto in occasione di una mostra realizzata al Museo d’Arte Naive “Cesare Zavattini” di Luzzara. Pantaleoni ha sempre allestito mostre presso il Museo, tra cui anche quella bellissima di Antonio Ligabue. Il suo lavoro risulta sempre originale, poco scontato. Ricordo che in una precedente mostra che feci a Bologna tappezzò di giornali tutto il pavimento della sala. L’effetto fu talmente particolare da suscitare le reazioni più disparate; in moltissimi apprezzarono ma una vecchietta si lamentò perché si era impigliata con una scarpa in una pagina di giornale rischiando di cadere.
Pantaleoni arrivò il sabato pomeriggio, il giorno dopo ci sarebbe stata l’inaugurazione della mostra presso la scuola. Quando vide la sala da allestire, che era poi costituita dall’atrio della scuola, rimase piuttosto perplesso; le porte delle aule erano di un bel colore arancione che certo si prestava poco ad un’esposizione d’arte; i muri erano tappezzati dai dipinti dei ragazzi, non c’erano nemmeno pareti libere dove attaccare i dipinti ed infine gli armadi erano di un colore bianco plastificato. La perplessità di Luciano durò solo un attimo; l’architetto cominciò a dare disposizioni a tutti, diversi genitori si erano resi disponibili per dare un aiuto. Sembrava un generale al comando dei suoi uomini, con piglio sicuro e deciso Pantaleoni infondeva sicurezza durante la fase dell’attacco al nemico. Un nemico che poteva mettere in ginocchio chiunque. Dispose che si girassero tutti gli armadi in modo da poter piantare i chiodi per i quadri. Poi utilizzò dei grandi cartoni che erano esattamente delle stesse dimensioni degli armadi. Con martelli, chiodi, un po’ di colla e delle forbici, in poco tempo l’atrio cambiò d’aspetto diventando un’adattissima sala da esposizione, con il colore beige del cartone che dominava e si amalgamava benissimo con le mie opere.
Pantaleoni scelse tra le mie opere quelle che potessero essere adatte a ragazzi delle medie e bimbi delle elementari. Del resto ha un figlio di dodici anni e avrebbe scelto con cognizione di causa. Tutte le volte che Luciano seleziona le opere da esporre per me sono colpi al cuore. “Ma come?” penso, “non vuole esporre quella che mi sembra così bella e significativa”. Quindi, con molto tatticismo, partendo da lontano, cerco di fargli cambiare idea, ma non c’è niente da fare. Alla fine, in quell’occasione, Pantaleoni chiuse a chiave in una stanza circa una ventina tra sculture e dipinti; questo per evitare che una volta andato via io li tirassi fuori per esporli, era già successo.
La sala si era davvero trasformata, la mostra era di grandissimo impatto emotivo. I miei esclusi, i fiori, gli animali ed i miei vecchi angeli sembrava vivessero. La preside, i professori ed i genitori erano contenti del lavoro fatto, ma erano anche molto preoccupati per l’incolumità delle opere visto il pubblico prevalentemente fatto di ragazzi della scuola. In effetti un po’ preoccupato lo ero anch’io, ma non lo davo da vedere. L’unica persona che riusciva ad infondermi sicurezza era la vice-preside, la professoressa Mancini. La Mancini ha visto diverse mie mostre e anche “Maruchèin” le è piaciuto molto. Vista la sua disponibilità ho chiesto alla professoressa se poteva dare un’occhiata al manoscritto del “Pitto”; lei è un’insegnante di italiano e così…..se avessi scritto qualche strafalcione, con la matita rossa, istintivamente, me l’avrebbe corretto. Questa insegnante è veramente eccezionale, nel tempo ho avuto modo di vedere quanto amore e dedizione mette nel suo lavoro, è impegnata in tutte le iniziative dell’Istituto e spesso, quando nel pomeriggio dopo il lavoro passavo a visitare la mostra, la trovavo stanca per tutto il lavoro svolto. Ma quando qualcuno le parla d’iniziative scolastiche che possono stimolare la creatività dei ragazzi vedo i suoi occhi azzurri scuro che si accendono, sorridono e diventano dolci.
Nei primi giorni i ragazzi non avevano fatto danni anzi, la Professoressa Mancini mi aveva detto che quando passavano vicino alle opere rallentavano la corsa e venivano assaliti come da una timorosa soggezione. Intanto stava per arrivare il temuto lunedì. Il giorno in cui avrei dovuto confrontarmi con i ragazzi per spiegare loro le opere. Ero abbastanza preoccupato per le domande che mi avrebbero potuto fare, avrei dovuto essere esauriente e trovare le parole giuste. La notte prima feci fatica a dormire e alla mattina ero stanco e avrei voluto scappare o darmi malato.
Quel giorno, con mia grande meraviglia, i ragazzi mi fecero domande molto pertinenti, mi chiesero le motivazioni che mi avevano spinto a farle e il loro interesse era soprattutto rivolto verso le opere a contenuto sociale. A loro non interessava la tecnica, ma il contenuto. Ragazzi che per noi adulti appaiano spesso superficiali e disinteressati a ciò che li circonda dimostravano una sensibilità molto profonda. Una delle opere che ha colpito maggiormente i ragazzi è stata il “Cristo degli alberi”, una scultura che rappresenta un albero tagliato e fissato su una croce di metallo ricoperta da scritte pubblicitarie ritagliate da giornali. Alcuni pensavano avessi tagliato un albero vero. Qualcuno aveva temuto che qualche ragazzo avesse potuto interpretare in modo sbagliato quell’opera, che poteva sembrare dissacrante per il simbolo della croce utilizzata in quel modo. Invece i ragazzi hanno capito perfettamente il significato; noi umani ci mettiamo al di sopra del creato e dovremmo invece ad imparare a rispettare gli altri esseri come noi stessi per scongiurare la distruzione del pianeta. Un’altra opera che li ha colpiti molto è la scultura del mendicante in mezzo ai rifiuti. Si sono stupiti quando ho detto loro che un senza dimora ha voluto firmare quell’opera col suo nome e cognome. Hanno anche riso quando spiegavo loro che i cani, quando vedevano la grande scultura del cagnone nero legato alla catena, reagivano come gli umani in tantissimi modi; chi si spaventava, chi era aggressivo e chi contemplava l’opera e cercava un dialogo (canino). A visitare la mostra vidi anche quel ragazzo che giorni prima mi aveva chiamato marucheìn. Lo chiamai in disparte chiedendogli se era stato lui e con un sorriso disarmante e furbo mi disse di si. Dal leggero accento che percepivo diverso capii che era d’origine meridionali come me. Quel ragazzo poi mi fece tantissimi complimenti e mi disse che da grande gli sarebbe piaciuto fare il pittore. Alla fine della giornata ero stravolto per la tensione ma molto contento.
Il sabato mattina ad inaugurare la mostra con il pubblico fu invitata la grande astrofisica Margherita Hack (sono andato a rivedere come si scrive per non sbagliare).Per l’occasione avevo realizzato una scultura da donarle, rappresentava una donna in un cielo azzurro che con una retina da farfalla cattura le stelle. di stelle”.
Quando Margherita Hack arrivò rimasi meravigliato, l’avevo immaginata fisicamente una donna imponente, un monumento statuario. Invece era piccola magra e anche leggermente curva per i suoi ottant’anni portati bene. Mi faceva lo stesso effetto delle sculture dei partigiani di Porta Lame; giovanissimi, bellissimi e altissimi (issimi). Quanto può anche l’arte figurativa essere lontana dalla realtà quand’è così retorica. Quello che contraddistingue queste grandi persone è la forza interiore, il grande impegno che mettono nelle cose in cui credono. Quella mattina la palestra era gremita, c’erano centinaia di persone tra ragazzi e adulti ad ascoltare l’astrofisica. Io stavo assieme a lei sul parco e per me era un grande onore. La signora Hack ha parlato d’astrofisica, ma anche di attualità. Non ricordo come, ma siamo finiti a parlare anche di embrioni umani. La Hack ha detto che ci sono centinaia di embrioni dei quali non si sa cosa farne e piuttosto che distruggerli come vorrebbe qualcuno sarebbe più giusto utilizzarli per la ricerca. Sono d’accordo con lei, ma com’è difficile essere coerenti. Io, ad esempio, anche se sono per la libertà della donna, sono contrario all’aborto fin dal concepimento. Questo convincimento è maturato nel corso degli anni, quando ho visto che si è arrivato ad un uso consumistico dell’aborto. Per me è inaccettabile che uno stato si faccia carico economicamente e moralmente di un aborto non dettato da ragioni serie e profonde. Ho conosciuto coppie giovani, che hanno abortito pur avendo salute, grandi disponibilità economiche e un figlio solo. Per me è inaccettabile “consumare” anche la vita potenziale in questo senso, non sforzarsi di sacrificare se stessi per una vita che non ha chiesto di arrivare. Inoltre ci sono tanti contraccettivi per evitare un figlio non voluto.
Un altro invitato all’inaugurazione è stato Walter Vitali che ha assistito all’incontro con la Hack. Apprezzo molto Vitali per quello che ha fatto in qualità di sindaco. Si è trovato ad amministrare una città complessa come Bologna in un periodo di grande cambiamento. Epocale. “Orde” di immigrati assalivano la civiltà della città, ogni immigrato rappresentava un pericolo, un nemico barbaro e pericoloso. Però da utilizzare per i lavori sporchi e umili. Quel sindaco che prima del previsto i bolognesi cominciano a rimpiangere ha dovuto guidare una situazione difficilissima. Cercare di equilibrare i grandi cambiamenti senza scendere sul terreno in cui cercavano di trascinare lui e la sua giunta, che è quello del razzismo e della demagogia contro poveri e stranieri. E questa, al di là di tutte le motivazioni che cercano d’inserire, è costata il governo della città. I principi e la grande tradizione democratica valgano anche di più del governo di Bologna.
Bologna è stata persa dalla sinistra ma la sua grande tradizione di tolleranza e accoglienza è stata salvata. E’ rimasta nel patrimonio ideale della città. Di persona Vitali appare molto diverso di come è sempre stato sempre presentato. Molto affabile e gentile, anche simpatico. Non è quel personaggio scostante, un po’ ingessato e formale che la stampa cittadina ha sempre voluto accreditare. I ragazzi hanno riprodotto in pittura e scultura le mie opere; sono stati molto dolci. Questo mi ha fatto sentire molto orgoglioso dei miei lavori. I ragazzi hanno anche fatto un catalogo con le mie opere recensite. Molti scritti sono belli e toccanti e li conservo tra i miei ricordi più cari. Su mia proposta sono state fatte tante buste contenenti “sogni e desideri”, poi nascoste nel parco della scuola sotto ad un piccolo melograno con l’auspicio di “RITROVARLI” il 26 maggio del 2021, tra 20 anni, in un appuntamento collettivo: CI SAREMO TUTTI, QUESTA E’ STATA LA PROMESSA!
A volte prima di andare giù nel mio ‘studio’ a dipingere o a scolpire sono preso dallo sconforto. Vedo ‘artisti’ che non sono nemmeno capaci di unire due segni ottenere dei riconoscimenti solo perché appoggiati da una certa critica monopolistica che considera arte solo quello che viene dal loro mondo elitario, banale e slegato dalla realtà. Sono amareggiato da quella critica che fa grandi elaborazioni teoriche su scarabocchi, che cerca di evidenziarsi più delle opere stesse, che cerca di celare l’incapacità di questi ‘artisti’ appoggiati anche dai mercanti perché questi possono realizzare una grossa produzione, veloce e incriticabile. Azzardarti a dire qualcosa su quelle macchie di colore, sui quei segni senza nessun ordine, sei tacciato d’ignoranza.
Dopo una giornata di lavoro in fabbrica spesso sono molto stanco e stressato; diverse volte sul lavoro sono chiamato a risolvere dei problemi di qualità e spesso devo confrontarmi e scontarmi con altri enti aziendali o con i fornitori. A volte non hai voglia di impegnarti per altre due o tre ore. Ti chiedi se ne vale la pena di sacrificare una vita alla ricerca di qualcosa che non trovi mai, di qualcosa che calmi quell’irrequietezza che ti accompagna da quando sei nato. Ma poi sforzandomi prendo le chiavi e vado in cantina per andare a finire un dipinto, una scultura o per creare qualcosa di nuovo.
Dopo aver fatto per tanti anni opere di contenuto sociale e dopo aver cercato di porre sullo stesso piano l’uomo, il mondo animale ed il mondo vegetale, ora sto cercando di visualizzare quel filo, quei colori che non vediamo, di quell’energia invisibile dei ‘vivi’. Con l’arte pranica o energetica cerco di visualizzare quell’energia che ci lega tutti assieme, che unisce tutti e tutto. Noi umani spesso la dimentichiamo e la spezziamo, ci crediamo superiori agli altri esseri viventi perché dotati di intelligenza. Credo invece che questo non sia così vero, altrimenti non si spiegherebbe questo accanimento verso le altre creature. Non conosco nessun altro animale che cerchi di alterare l’equilibrio ambientale in cui vive, un ecosistema che, se si proseguirà su questa strada sarà tanto deteriorato da impedirci di vivere al suo interno. Stiamo ottenendo l’effetto di infrangere questa energia che ci unisce, un’interruzione che ci impedisce sempre più di comunicare l’uno con l’altro. Ci riesce difficile concepire le altre esistenze non umane come qualcosa che fa parte di noi, da amare e rispettare.
Ogni tanto, quando ho questi momenti di sconforto, penso a Franco Solmi che scrisse una volta in un’intervista: ci sarà lontano dai clamori, in qualche cantina, qualcuno che tra mille sacrifici e difficoltà sta cercando di fare dell’arte. Nei momenti di ottimismo, quando penso d aver concluso una bella opera, penso proprio che quel qualcuno potrei anche essere io.
Questo libro è stato scritto più di quattro anni fa anni fa nel frattempo…...
Sono passati molti anni da quando ho realizzato “l’albero di Mirto parla col cielo” e il mio collega mi ha detto, con gli occhi lucidi, che entro pochi giorni dovrà abbattere il suo grande e vecchio albero perché malato e pericoloso. Ho chiesto a sua moglie di assistere all’operazione; per Mirto abbattere quell’albero sarà una grande sofferenza.
Il Sindacato di Cofferati, sembra che finalmente si sia reso conto di quanto la “cogestione” prima e la “concertazione” dopo siano state strategie sbagliate e dannose per i lavoratori e per non morire ha rimarcato la sua autonomia dai partiti politici.
Silvia da qualche tempo si è licenziata. I suoi “razzi” e “razzissimi” mi mancano.
Forse ho trovato il sistema per non farmi più “scossare” da Picchio. Quando ho finito di mangiare mi alzo lentamente, in punta di piedi mi avvicino a lui e gli do una vassoiata in testa. Il colpo non è molto forte, ma efficace. Mi sono accorto che non è tanto il male che sente a dargli fastidio, ma piuttosto il rumore dei piatti che gli rimbalzano sulla testa. Da qualche giorno non mi scossa più. Vedremo……
Nella zona B del comune di Casalecchio è stata costruita ed è già operativa Castorama, un’altra megastruttura di una multinazionale francese.
Giulio non viene più in cantina, mi mancano quelle discussioni fatte senza neanche vederci.
I secessionisti hanno cambiato tattica, non più urla e invettive, cercano di far passare senza clamori leggi che saranno distruttive per il nostro paese.
Alcuni mesi fa Renzo trovò nel piccolo giardino del suo stabilimento un galletto francesino, non si sa da dove provenisse. Questo animale non è più andato via dal giardino di Renzo, anche perché ha cominciato a nutrirlo. Poi per non lasciare solo il galletto è andato al mercato e ha comprato alcuni pulcini della sua stessa razza che sarebbero diventati in poco tempo delle gallinelle. Un pulcino si è poi rilevelato un altro galletto: tutto il giorno si azzuffa con l’altro. Poi ha comprato alcune anatre mute, questo per non disturbare gli altri stabilimenti vicini col loro starnazzare. Una di queste non è affatto muta, ma rumorosissima. Renzo mi ha detto che quest’anatra, quando lo vede arrivare alla mattina, gli fa un mucchio di feste e la sua gioia fatta di qua, qua, qua, la fa sentire a tutte le fabbriche vicine. Si comporta con lui come un cagnolino. Dice con voce contrariata che fa un gran casino, in realtà si vede che gli fa molto piacere. Poi per far stare bene le anatre ha realizzato un minuscolo laghetto. Praticamente l’ingresso dello stabilimento si è trasformato in una piccola fattoria. L’effetto è molto bello. Renzo è una di quelle persone che con il suo lavoro e la sua intelligenza ha contribuito a far diventare la provincia di Bologna una delle più industrializzate d’Italia. Quelli come lui però conservano nel cuore la loro origine contadina. Penso che tra un po’ vedrò in quel piccolo giardino anche un bellissimo tacchino.
In questo periodo sto preparando la mostra su Dino Campana. Il grande poeta di Marradi aveva dato il manoscritto dei “Canti Orfici” ad Ardengo Soffici per averne un giudizio critico. Quando qualche tempo dopo ne chiese la restituzione, Soffici gli disse che l’aveva smarrito. Campana fu costretto a riscrivere tutto il manoscritto a memoria. A parte il grande lavoro di ricostruzione che ha dovuto fare, i critici, rivedendo il manoscritto originale trovato nella cantina di Soffici nell’72, quasi sessant’anni dopo, hanno detto che è stata una fortuna che fosse stato smarrito perché quello riscritto era molto più bello. Maledetto computer! Avevo quasi finito di completare questo libro quando si è rotto l’hard-disk o come cavolo si chiama. E’ sparito tutto il libro assieme a tanto altro materiale; così devo riscriverlo a memoria con il solo aiuto di alcuni appunti. Spero che, come è capitato a Campana, questa stesura sia più efficace della precedente, anche se per me sarà difficile fare confronti, visto che nel computer pare non sia rimasto niente. A meno che qualche esperto di hard-disk riuscirà a tirar fuori il materiale importante sparito: gli darei volentieri in cambio un’opera.
Poesie e altro
Non far piangere l’Angela (alla sposa)
Non far piangere l’Angela
ti sembra lontana ma ti è vicina
ti dà amore e non lo vedi
e il suo cielo ha per te sacrificato
Non far piangere l’Angela
Non è scontato che l’avrai sempre al tuo fianco
a volte tante piccole ferite
nell’anima rimangono profonde
non farla piangere quand’è in cucina o dentro al letto
e quando è fuori a lavorare
Non accorgerti di quanto è per te importante
quando temi stia volando via
A mi peder e mi meder
(N’gobba e a bascio)
Quattro anni io tenivo
quando da bascio n’goppa man purtato
papà a Bologna già da tanto tiempo stava
e senza famiglia non poteva stà.
Quando è nata a figlia mia
l’uocchi teneva do cielo chiaro a primavera
comme a tanti da razza mia
Ma mi muiera am ha ricurdè
che anch i so an gli ucc acse
Mammà e papà quando n’coppa stavano
o core a bascio tenevano
quando a bascio stavano
co core cui figli n’gobba stava
Bascio, ngobba, n’gobba bascio
nui non tenimmo mai la pace
cacche cosa sempre ce manca
Da tutte e parte simmo sradicati
e considerati forestieri
anche nei posti ca simmo nati.
Mamma se ne iuta quando a bascio stava
e Floriana a panza teneva
e u figlio mio non ha potuto vedè.
Ogni tanto mi piglia l’arraggiatura
da quando ce stata sta unificazione
er nui meridionali ce stata sula emmigrazzione
E chissà se st’unità per nui è stata na cosa bona.
Ma poi am ven da penser
Che a Bulagna a son cascè ben.
E’ misteriosa la vita
E’ misteriosa la vita
come quando ero ragazzo torno a pensarci
con l’ottimismo della fede rispondi a tutto
e a niente quando sei in crisi
Come una nobildonna salottiera
m’interrogo su futuro ed eternità.
Quando alla sera porto Ralf a fare i suoi bisogni
liberandolo per un attimo della sua prigione casalinga
guardo il cielo cercando il limite dell’infinito
e di riflesso anche quello dell’eternità
un brivido di smarrimento mi prende nel cervello
Quanto è piccola la mia mente
che non riesce a darsi spiegazioni
l’infinito finisce e dove?
e oltre cosa c’è?
l’infinito e l’eternità sono un limite mentale
forse sono nel modo strano di sorridere di quel ragazzo
che lo avrà ereditato da sua madre
forse l’aveva già quel suo antenato etrusco
è questo forse il gran mistero
la trasmissione inconsapevole di tutto?
Nessuno ha insegnato al mio amico ad alzare la zampa per pisciare
e un fiore non sa perché profuma.
Come mio padre sono un visionario
e come mamma con poco mi commuovo
senz’altro ero cosi` quand’ero scimmia e verme primordiale
c’è lo spazio, il tempo e l’infinito in tutto questo?
Ghizzardi Pietro
(omaggio a Pietro Ghizzardi)
Il cappello d’alpino e il mantello
il fisico imponente e lo sguardo dolce e malinconico
raccoglieva cartoni per dipingerci sopra
Con pochi colori naturali
e il nero di fuliggine
riusciva a far capolavori
Dipingeva con occhi e mani da bambino
con lui se ne andata
la civiltà padana-contadina.
A noi ipocriti di sinistra
Siamo in tanti noi ipocriti di sinistra
Parliamo, parliamo, parliamo d’idealità
ma in realtà siamo razzisti
contro chi ha il sole addosso.
Quel tipo qualcosa ha combinato
se vive per strada abbandonato.
La pancia piena ci fa pontificare
il progresso non si può fermare
se serve è giusto cementificare.
Difensori di poveri e operai
ma non c’è contraddizione
se ai piedi porto scarpe da un milione.
Le ingiustizie degli altri a noi fanno indignare
ma per le nostre c’è sempre spiegazione
La guerra è cosa giusta
Se però non mi riguarda
E siamo sempre a giudicare tutti.
Zitti, zitti, è ora di star zitti.
Dedicata a mamma e alla mia compagna
Madre
Donna
Dai l’amore
Il più profondo
L’Italia del ‘2000
Arriva l’Italia del ‘2000 quinta potenza industriale
con tutti i conti risanati
a spese della gente che lavora
dell’ipocrisia e degli stupiti che credono al potere
quando dice che per eliminare la disoccupazione
occorre aumentare l’età della pensione
L’Italia dei padani
di chi non l’ha coi meridionali e gli extracomunitari
ma che alla fine mettono sempre un però..
Del sindacato cogestore del potere
che becca le briciole per terra
e che da tanto tempo a smesso di volare
Dell’angoscia del sabato sera che tiene svegli tutta la notte i genitori
in attesa del ritorno dei ragazzi
che dovrebbero andare a divertirsi
ma che inconsciamente cercan di morire
in questi anni vuoti di valori
L’Italia egoista del nordest
fina a poco tempo fa terra d’emigranti
che esalta la sua etnia e si ubriaca
solo per un poco di ricchezza conquistata
che crede che è meglio far da soli
piuttosto che essere un poco solidali
e parla di chi gli ha dato tanto
come terra straniera disprezzata
L’Italia delle famiglie senza figli
che preferiscono evitare sacrifici
comprarsi un bel vestito e fare un viaggio
piuttosto che crescere un bambino
Paese dei vecchi abbandonati e solitari
chiusi in ospizi o in case vuote
che si commuovono quando vedono un bambino
così raro in questi tempi disperati.
L’Italia della pornografia
e del sesso itinerante e senza amore
e di pedofili assassini
L’Italia di chi guarda alle apparenze
se hai una bella macchina e vesti bene
e che se ne frega dei buoni sentimenti
Arriva l’Italia del ‘2000 quinta potenza industriale.
E’ tornata l’estate
E’ tornata l’estate
me n’accorgo all’improvviso
quando rivedo i bei fiori rossi del melograno
che si trova all’ingresso del parco Louis Armstrong
Sembra impossibile ma è già passato un altro anno
il tempo scorre con una velocità che mi affascina e spaventa
si avvicina l’attimo che mi attende da quando sono nato
e che spero mi farà capire le ragioni della mia esistenza
Sembra ieri che ero ventenne affascinato dall’operaio rivoluzionario
che mi diceva che anch’io potevo cambiare il mondo
Ormai son quasi vecchio
e guardo il cielo a contar le rondini
che ogni anno diventano più rare
Osservo Ralf che ha ormai 5 anni
e che non è ancora riuscito a far l’amore
e se ci fossero, lo porterei a puttane
quanta violenza facciamo agli animali
costretti a viver come noi
per fortuna che ho quest’amico
che mi obbliga ad uscir la sera
mi permette di contemplare la natura
anche se qui addomesticata
Povero Ralf e povera natura
stuprati da miliardi di umani ‘intelligenti”
anch’io sono un dio cattivo
che soggioga piante ed animali
Ma si avvicina galoppando
l’attimo che mi attende da quando sono nato.
Primavera nel Sannio
1998
E’ difficile non essere retorici
quando vedi il Sannio al risveglio dall’inverno
Appena si schiariva sono andato in alto
per riempirmi gli occhi e il cuore del più vasto orizzonte
e conservarne il ricordo fino a quando non potrò tornare
Quanto è bella la terra dove sono nato a primavera
per i dolci declivi e i verdi ulivi sembra la Toscana
ma mi dicono che in tanti sono ancora costretti ad emigrare
se ci penso mi vengono gli occhi umidi e mi arrabbio
ripenso a mia madre ed a mio padre
ed a quello che hanno sopportato
Anch’io ho sofferto, anche se nel ‘54 avevo solo cinque anni
e ho avuto la fortuna di crescere a Bologna
E’ difficile per chi non l’ha provato
capire il turbinio di sentimento che puoi avere
verso il luogo che hai dovuto abbandonare
Cercherò di far amare questa terra
anche ai miei due figli nati altrove
che si considerino anche un po' sanniti
Vedere il Sannio a primavera mi fa capire gli antichi suoi abitanti
che lo difesero fino all’estinzione
e perché dalla Svezia i Longobardi.
attraversarono l’Europa per fermarsi proprio qui.
Danza dello smog (ispirata dalla scultura ‘Danza dello smog”)
Danza lo smog, danza
danza lo smog
danza se lo vedi
danza se non lo vedi
danza se è trasparente
danza se è consistente
danza dentro le case
e per le strade
si esalta se il traffico è esagerato
e siamo in fila in città
Non sopporta la solitudine
e il silenzio della campagna
danza e non si stanca
e aumenta il ritmo con il casino
danza lo smog, danza
danza lo smog
danza ed è felice se viene il sole
il caldo e l’umidità
danza se viene freddo
si riposa se piove
gode se ci spaventa
e fa un po' di paura
Se esagera e danza troppo
teme che la centralina
gli controlli i valori
gli abbassi il ritmo
e fermi la danza
ma subito si riprende
e torna a danzare
danza lo smog, danza, danza lo smog
All’emigrante (un canto dall’Italia)
Dedicato alla famiglia di John Cervone, parenti americani ritrovati dopo tre generazioni.
Di questa poesia sono riuscito a ricavarne una canzone molto bella che è stata musicata e cantata dal mio amico d’infanzia Toni Clan, fratello del mitico Picciuna.
A voi e ai vostri padri partiti con lo spago
questo dolce canto è dedicato
è stata per voi una terra avara
sempre desiderata e nei ricordi mitizzata
E’ un omaggio alla nostalgia, alla malinconia
al cuore stretto e alle lacrime versate
Quando dal bastimento la costa se ne andava
all’arrivo il petto si gonfiava
e la cipria colorava
nelle americhe volevan solo gente sana
I will for you in english to make you fell still italians for a while
E’ un canto dolce e antico
e vien dallo stivale
mille vostri avi sono vissuti qui
l’amore per il bello dall’antenato
avete ereditato
Si riempivano gli occhi d’arte e di splendida natura
Ma per vivere non bastan polenta e olive
Je chanterai en francais pour vous, pour vous fiare sintir ancore un peu italianes
Ormai siete statunitensi, argentini, brasiliani
canadesi, inglesi francesi
uruguayani, venezuelani, australiani
Ma in ogni occasione
srotolate al vento il tricolore
Cantarè en espanolo por ustedes, afin de que aun vos
sentirais un poco italianos
Questo dolce canto a voi è dedicato
vi risveglierà l’amore per questa terra
vi riconosco dallo sguardo
siete ancora un po' italiani
anche se da tanto tempo ormai siete lontani
I werde fur euch auf italienisch singen,
so dab ihr euch noch ein bibchen italianish fuhlen
E da qui noi vi diciamo
che vi amiamo e rispettiamo (aspettiamo)
Canterò per voi in italiano
per farvi sentire un po' italiani
Foto di carlo Soricelli
Le poesie di Carlo
Museo opere di Carlo Soricelli a Casa Trogoni di Granaglione
CADUTI SUL LAVORO CARLO SORICELLI
Rifiutismo
http://rifiutismo.blogspot.it/
lunedì 7 febbraio 2011
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