Foto di carlo Soricelli
Le poesie di Carlo
Museo opere di Carlo Soricelli a Casa Trogoni di Granaglione
CADUTI SUL LAVORO CARLO SORICELLI
Rifiutismo
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venerdì 6 maggio 2016
Maruchein integrale in italiano con prefazione di Pupi Avati e Walter Vitali, Sindaco di Bologna, un libro scritto nel 1996, ma ancora attuale contro il razzismo
Presentazione di Pupi Avati
Per molti anni della mia adolescenza ebbi come compa-gno del cuore un ragazzino meridionale, un maruchèin come Carlo Soricelli.
Ho ritrovato quindi, fin dalle prime pagine di questo libro, l'intensa emozione di chi si sente risucchiato in un mondo che riconosce nei suoi più minuti e spesso non edificanti aspetti.
Ho esperienza diretta di quanto fosse intrisa di razzi¬smo, di prevenzione, la cultura di una città pur evoluta come la nostra. Un tipo di diffidenza sottile, mai del tutto esplicitata ma che permeava di sé tutti i rapporti.
Negli ultimi decenni fortunatamente tutta la nostra società civile ha compiuto un grande passo in avanti lasciandosi alle spalle quell'orrendo pregiudizio. Fino alle follie leghiste di questi ultimi tempi ...
Giunge quindi in qualche modo puntuale questa testimonianza di Soricelli che racconta di sé, dall'interno quindi di un'esperienza totalmente soggettiva, che de¬scrive con puntigliosa fedeltà il suo approccio di adole¬scente meridionale alla nostra cultura.
Insisto sull'aspetto soggettivo perché mi è parso il più convincente, quello più efficace a restituire una stagione. Soricelli parlando di sé, della sua famiglia, dei suoi compagni, delle tante difficoltà da superare, fa storia, tramanda in modo inconfutabile un pezzo non trascura¬bile della vicenda della nostra gente, spiega certi muta¬menti giungendo a dare radici al nostro presente.
Di questo gli sono grato. Per aver parlato di sé da un pulpito apparentemente così poco elevato. Per averci mostrato certi momenti della nostra storia comune attraverso un'angolazione assolutamente inedita e di averlo fatto con quel pudore, con quella delicatezza estremizzata di chi forse, malgra¬do tutto, non si sente ancora del tutto legittimato a dirsi in una città che da tempo ha posto ben altri valori in testa a tutte le classifiche.
In questa stessa città nella quale il successo economi¬co conta sopra ogni altro valore, in questa stessa città che noi pur tanto amiamo, Soricelli ci riconduce ad una notte durante la quale tutti uscimmo nelle strade a scrutare il cielo, in attesa del passaggio dello Sputnik.Ci fu anche per la nostra generazione il Rex di Fellini? Soricelli ne è certo e questa certezza stanotte mi fa bene. E’ quindi a questo sogno comune, bellissimo e d'ora innanzi definitivo, che intendo legarmi. E, per riconoscenza, a questo libro e al suo autore.
Carlo Soricelli
Pup
Introduzione
ti
Ho deciso di iniziare a scrivere della mia famiglia il quindici settembre del 1996, quando Bossi ha proclama¬to l'indipendenza della Padania; non ho mai scritto niente in vita mia, ma vedendo il telegiornale mi sono venute le lacrime agli occhi; ho ripensato alla mia fami¬glia e ai sacrifici dei miei genitori, alle loro tradizioni abbandonate per dare un avvenire migliore ai figli.
Mi sono anche indignato e offeso: tutti i mali di questo Paese sono stati addebitati ai meridionali. La secessione virtuale di una piccola minoranza nelle regioni del nord non ha nessun valore giuridico e morale, ma sta generan¬do un clima di incomprensione. A me preoccupa soprat¬tutto che i meridionali residenti al sud credano che nelle regioni settentrionali la pensino tutti così; temo che in questa situazione i problemi per l'unità arrivino proprio dal sud, e forse, è a questo che mirano: provocare la rabbia dei meridionali, cercando di umiliarli e spingerli così a una rottura traumatica del Paese. Credo non si rendano nemmeno conto di quello che possono innesca¬re qui al nord dove i meridionali sono quasi numerosi quanto i locali e le famiglie, composte da almeno un coniuge meridionale, altrettanto.
Il legame storico, geografico e di parentela che unisce il sud con il nord è tanto forte che sarà comunque impossibile sradicarlo.
Non posso nemmeno immaginare che diventino stra¬nieri la Valle dei Templi, il mare calabrese, i bronzi di Riace, Pompei, le canzoni napoletane, i Trulli di Alberobello e Roma, città incantevole che ha civilizzato il mondo.
Con questi ricordi dell'infanzia vorrei fare un omag¬gio alla Bologna degli anni Cinquanta che aveva rag¬giunto un livello di civiltà ammirevole per quei tempi. Questa splendida e tollerante città che ancora adesso possiede servizi sociali di prim'ordine e una grande vitalità culturale, ha plasmato il mio carattere fin nel profondo. Ricordo con amore i partigiani che ho cono¬sciuto e che mi raccontavano di quanti di loro sono morti gridando "Viva l'Italia"; quegli uomini di così grande levatura morale mi hanno insegnato ad avere degli ideali dei quali, nel mio piccolo, ho sempre cercato di tenere conto. Ho provato una grande ammirazione per i vecchi compagni di fabbrica che avevano studiato poco, ma possedevano una cultura invidiabile e amavano la poli¬tica, così come anche l'arte, la musica e la storia. E cosa dire dei tanti artisti che ho incontrato e che mi hanno fatto comprendere e apprezzare la tradizione pittorica bolognese?
Mi piacerebbe che in questa storia si riconoscessero i meridionali, i figli e i discendenti dei meridionali resi¬denti al nord, e che tali discendenti fossero orgogliosi di quei loro parenti partiti nel corso di questo ultimo secolo in cerca di fortuna.
Sarei felice inoltre, che questa fosse considerata anche una piccola storia bolognese. E a due bolognesi, in particolare, debbo nella circo¬stanza presente un ringraziamento - Pupi Avati e il Sindaco di Bologna Walter Vitali - che hanno incoraggiato e sostenuto questo racconto.
Al Villaggio Ina Casa, in pochi anni, si era formata una vera comunità di uomini, donne e bambini provenienti da ogni regione italiana, anche dal Veneto, che a quel tempo era economicamente povero; parlavano solo il proprio dialetto e un italiano stentato ma si rispettavano gli uni con gli altri e si capivano: mai ho saputo di episodi di intolleranza e di razzismo. Nei miei ricordi il Villaggio Ina Casa è la versione metropolitana di un quadro naive di quelli idilliaci dove in mezzo a una natura incontaminata, l'uomo trova un suo equilibrio.
Immagino cosa sarebbe Bologna senza l'arrivo di tante persone dal sud, una città molto più vecchia di adesso e con meno di duecentomila abitanti: quasi ogni bolognese ha ormai parenti di origini meridionali. Gli italiani provenienti dal sud dell'Italia in tutto il mondo superano i sessanta milioni e ovunque siano andati sono riusciti, con il loro lavoro e la loro intelligenza, a raggiun¬gere posizioni rilevanti.
I movimenti delle popolazioni avvenuti nel corso della storia sono incredibili. I longobardi arrivarono dall' estremo nord e trovarono nel Beneventano un posto migliore per poter vivere. I loro discendenti stanno abbandonando quei posti e rifacendo a ritroso il percor¬so dei loro antenati.
Spero che un domani un bimbo albanese, arabo, africano, filippino o pakistano possa scrivere una storia come la mia e conservare del luogo che lo ha accolto i miei stessi bei ricordi.
Carlo Soricelli
Parte I
Ai miei genitori
a tutti gli emigranti
e ai loro discendenti
Maruchèin
Abitavo in Via del Carroccio
La mia vita di maruchèin - la versione bolognese di terrone - iniziò nella primavera del '54, quando, non avendo ancora compiuto cinque anni, mi trasferii con la mia famiglia a Bologna dalla natia Cesine, una contrada vicina a San Giorgio del Sannio in provincia di Benevento.
Del viaggio lunghissimo in treno ho pochi ricordi: le mucche che inspiegabilmente nuotavano nell' Adriatico e mia sorella più piccola, Teresa, che non voleva fare la pipì nel gabinetto del treno e diceva: "Non voglio piscià into a chillo buco, voglio farla dietro a reglia (paglia del fienile) a massaria mia."
Andammo ad abitare al Villaggio Ina Casa in un appartamento che era stato assegnato a mio padre, che risiedeva a Bologna già da alcuni anni e fino ad allora aveva alloggiato in una stanza ammobiliata presso una signora in via S. Felice, una strada nel centro della città.
Mio padre era un carabiniere in pensione che, dopo essere stato in servizio in diverse località italiane, era stato assunto in qualità di guardia giurata in un arsenale militare bolognese, in una località che si chiama Prati; si sposò all' età di ventotto anni, quella minima concessa ai carabinieri per il matrimonio.
Il più grande dei miei fratelli, Antonio, rimase per poco tempo a Bologna, e poiché non trovava lavoro, e scelse anche lui di fare il sottufficiale dei carabinieri. Noi fratelli più piccoli eravamo molto orgogliosi di lui; l'aspet¬tavamo alla fermata dell' autobus e lo guardavamo scen¬dere nella sua divisa nera ed eravamo felicissimi quando ci prendeva in braccio; ci portava sempre tanti dolci e cioccolatini e ogni volta contavamo i giorni che manca¬vano al suo arrivo. Anche lui, come papà, ha prestato servizio in tantissime regioni italiane. San Giorgio, il luogo dove sono nato, è incantevole.
I leggeri e dolci declivi della campagna beneventana ricordano straordinariamente la Toscana; gli ulivi sono disseminati per tutto il paesaggio e la terra è fertilissima; in ogni fosso che divide le collinette scorre l'acqua anche d'estate.
Dal terreno emergono spesso testimonianze del gran¬de passato di questa terra. Papà raccontava sempre che, quando nel '47 iniziò la costruzione della casa - che poi venne quasi completamente rasa al suolo dal terremoto dell'Ottanta - mentre stava prendendo della sabbia dal vicino torrente, a circa sei o sette metri di profondità emerse una piccola scultura di terracotta con sembianze umane. La prese in mano domandandosi per un attimo di che cosa si trattasse e come facesse quell' oggetto a essere così in profondità. Poi, preso dal suo lavoro, la lanciò via a pochi metri di distanza dal ritrovamento. Questa scoperta, fatta proprio nel terreno di casa, mi ha sempre affascinato.
Da ragazzo stavo delle ore a interrogare mio padre su forma, dimensioni e posizione del ritrovamento e lui, dopo un po', spazientito, rispondeva con un: "Nun o saccio" e concludeva così il mio terzo grado.
Ma torniamo alle cose serie, visto che la mia intenzio¬ne è quella di scrivere una storia sul tipo di Cuore di De Amicis - mi ha sempre commosso quel bimbo che dagli Appennini va fino alle Ande a cercare sua madre ¬oppure, come quella della Piccola fiammiferaia che poverina si scaldava dal freddo con il solo calore dei fiammiferi.
Per tradizione noi meridionali mettiamo sempre ai figli il nome dei genitori. Nella nostra famiglia i nomi Antonio ed Emilia, derivarono dai nonni materni, men-tre Pina (Giuseppa) e Saverio, dai nonni paterni; esauriti i nomi degli avi si poteva lasciare libero sfogo alla fantasia per quello dei nuovi arrivati, e fu mio fratello maggiore a sceglierli. Egli stava appunto studiando la Divina Commedia quando venne al mondo un maschio che fu chiamato Dante, in seguito, quando nacqui io, mi fu messo nome Carlo, da Carlo Magno, e poi fu la volta di Teresa, dal nome di una ragazzina di Benevento di cui lui s'era invaghito.
I miei fratelli più grandi, Antonio, Pina, Saverio e Carmine, erano tutti biondi e con gli occhi azzurri. Bisogna guardare alla storia per capire come mai.
Benevento ha una storia antichissima. Fu un'impor-tante città sannita, poi, dopo una guerra durata tre secoli, venne sottomessa a Roma. Quando l'Impero Romano si dissolse, fu occupata dai longobardi e per diversi secoli rimase la capitale di un loro principato che dominò gran parte dell'Italia meridionale. Il Principato Longobardo di Benevento è stato l’ultimo avamposto di quel popolo in Italia. Nel primo periodo i Longobardi si insediarono in Friuli, in Lombardia e in altre ampie zone del territorio italiano, ma mentre al nord i domini longobardi caddero tutti prima del IX secolo, a Benevento resistettero fino all’XI. Dopo i Romani, quello dei Longobardi fu l’altro grande popolo che ha unito etnicamente e culturalmente l’Italia. E’ per questo motivo che la Lega e Bossi non prendono i longobardi come riferimento: questo popolo ha osato spingersi fino al meridione e ha resistito due secoli in più che al centro-nord. Gli occhi azzuri e i capelli biondi di tantissini italiani discendono anche da loro.
Tornando alla mia famiglia probabilmente a un certo punto gli spermatozoi mediterranei di mio padre si arrabbiarono e dissero: "E’ mai possibile che arrivino primi sempre i nordici!" Così si opposero, ed ecco che arrivò Dante, moro e con gli occhi neri come il carbone. Quando dovevamo nascere mia sorella Emilia e io la lotta tra gli spermatozoi si fece più dura: "A te terrone non ti facciamo passare!» E gli altri della fazione opposta: "Un altro occupante longobardo? Non ci pensiamo nemmeno!» Gli uni im¬pedivano agli altri di fecondare, annullandosi a vicenda, e questo durò per diverso tempo (infatti vi fu intervallo maggiore del solito tra una nascita e l'altra) fino a quando si accorsero che così facendo morivano tutti senza otte¬nere nessun risultato. Decisero quindi di collaborare e raggiunsero un compromesso: probabilmente gli spermatozoi si fusero, come i colori quando col rosso e il giallo vien fuori l'arancione, così mia sorella Emilia e io nascemmo castani con gli occhi marroni. Qualche anno dopo, sempre sulla base dell'accordo raggiunto, arrivò Teresa, che da piccola era tanto scura che mio padre per la prima volta dubitò di mia madre. L'ultima, Pia, (toc¬cava al nord) era ed è così bionda e con gli occhi talmente azzurri, che ancora oggi potrebbe benissimo farsi foto¬grafare con una renna e spacciarsi per svedese – la Svezia, era appunto la terra d'origine dei longobardi.
La nonna Giuseppa cercava di scurire con 1'olio i capelli biondi dei miei fratelli più grandi, chissà, forse manteneva nei geni l'astio atavico tramandato di genera¬zione in generazione di una parte della popolazione beneventana verso 1'occupante longobardo.
Quando ci trasferimmo eravamo otto fratelli, la nona, Pia, nacque l'anno dopo a Bologna.
Dei primi tempi conservo solo alcuni ricordi vaghi. La signora Dominiconi del piano di sotto disse che quando ci vide arrivare si terrorizzò perché pensava alla confu¬sione che ci sarebbe stata con tutti quei bambini. Tempo dopo confessò che non riusciva a capire come, con tanti bimbi, non sentisse mai dei rumori. Gli inquilini al primo piano però i rumori li sentivano eccome. Mamma non aveva voluto lasciare a San Giorgio le due più belle galline che possedeva e così le avevamo fatte portare a Bologna insieme ai mobili; non sapendo dove sistemarle le aveva messe in cantina ma queste facevano un baccano infernale e dopo alcuni giorni per le proteste fummo costretti a tirar loro il collo.
Ricordo di una volta quando mamma andò a lavare i panni nella lavanderia collettiva che c'era sotto il solaio e mia sorella di quattro anni e io di sette rimanemmo chiusi soli dentro casa. Quando mamma tornò, vane furono le sue insistenze per farsi aprire la porta perché ci raccomandava sempre di non aprire a nessuno. Davanti all'uscio chiuso implorava: "Nun mi cunuscite? Sono mamma!) E noi niente. "Apriteme che stanno bollendo i fagioli!) E noi ancora niente. Quando la puzza di fagioli strinati si fece piuttosto forte, cominciammo a spaven¬tarci e decidemmo di far passare la chiave sotto la porta, così che mia madre riuscì a entrare, chiudere la bombola del gas e buttare tutto dentro l'acqua fredda.
Papà era una persona molto orgogliosa e piena di sé; a Bologna non era mai riuscito a inserirsi perché quando arrivò era già abbastanza avanti con gli anni. Quando nacqui io ne aveva quarantatré e appena poteva scappa¬va a Benevento nella sua casa e andava a zappare il fazzoletto di terra che nonno Saverio gli aveva lasciato.
Era uno, come si dice a Bologna, che: «Al salte 'a i fos par la long a» (una frase questa che gli anziani del posto dicono ai ragazzi per ricordare l'energia e la forza che avevano da giovani); solo che lui, i fossi per il lungo, li saltava pure quando era anziano. Con un metro si misu¬rava 1'ampiezza del torace e diceva che quando era giovane: "E femmane o baciavano mocca (in bocca) pa bellezza. Doveva essere una cosa veramente sconvolgente per quel tempi.
In effetti era veramente un bell'uomo: aveva degli splendidi occhi verdi, dello stesso colore dei mari delle Maldive in quei depliant turistici, e i suoi lineamenti erano perfetti. Gli mancava solo qualche capello ma io, come dicevo, l'ho conosciuto quando era già abbastanza anziano. Mi ricordo una sua frase che mi ha accompagnato per tutta la vita: "Pensa male se vuoi trovarti bene" e io infatti sono pessimista e penso sempre male. Il fatto è che quello che penso inevitabilmente mi accade: "Toh" mi dico, "è un po' che non ho mal di schiena." E il giorno dopo cammino sfiorando la faccia per terra; oppure: "È un pezzo che la colite non mi dà più fastidio." E dopo, per diversi giorni sono sempre in bagno; o ancora: "Cavolo, è da un po' che non tampono più nessuno con la macchina!" (Una mia specialità). E poco dopo, un "busso" terrificante. Adesso quando faccio di questi pensieri mi tocco da tutte le parti, ma non serve, quello che penso mi accade lo stesso. Quando papà tornava a Cesine, certe volte mi portava con sé. Un giorno di questi, mi successe una cosa strana che ancora non mi spiego: ci trovavamo in mezzo a un campo nei dintorni di casa nostra, quando uno strano oggetto ci passò sulla testa; aveva una forma irregolare, era lungo circa tre metri, trasparente con all'interno una luce fioca e dentro sembrava vi fossero delle persone. Volava lento, radente e lo potemmo osservare per diver¬so tempo. Dopo un po' si andò a schiantare contro la cima di un albero a poche centinaia di metri. Mio padre si chiese che cosa potesse essere e mi disse: "Currimmo, iammo a vedè che c ... è chillo coso!" E s'incamminò verso la zona dove sembrava fosse caduto. lo lo seguivo ma mi tenevo a debita distanza per la paura; quando arrivammo nel luogo presunto non c'era niente, nessuna traccia, solo un paio di metri di erba bruciata. Non ho mai capito che cosa sia stato. Da allora in poi comunque, fui rovinato; mio padre cominciò a prender-mi in giro: "Tu dici che si' veloce, che a scuola vinci tante gare e poi curri chiù chiano di me che songo viecchio."
Da piccolo, quando mi alzavo, sbirciavo dalla porta della camera dei miei genitori. Lui, mio padre, era sempre a letto perché faceva i turni di notte; lo vedevo che russava come un treno, e che dormiva a pancia in su, con la testa sprofondata nel cuscino e con una maglia di lana intorno al capo anche d'estate: probabilmente ave¬va paura di prendere freddo alla testa calva.
Come tutti i meridionali del nord, mio padre aveva la fissazione dell' araldica, voleva sapere chi erano i suoi antenati. Mi ricordo che spese molti soldi per la riprodu¬zione dello stemma e per il libro con la storia della famiglia Soricelli. Ne risultò che discendevamo da una famiglia nobile di origine napoletana.
La stessa mania l'ha trasmessa anche a me. Alcuni anni fa, a Cervia, mi imbattei in una di quelle persone che per strada, con il computer, mostrano 1'origine del tuo cognome per ventimila lire. Quando digitarono il mio cognome, apparvero sullo schermo i nomi di due regio¬ni: "Veneto o Piemonte, quale preferisce?" mi chiesero. Boh? Scelsi il Piemonte e subito scoprii che ero origina¬rio di un paese del Monferrato. Ma non dovevo essere d’ origine napoletana? L'anno dopo, a Rimini, sempre per la strada, non riuscii a resistere alla tentazione e mi feci la parte veneta. Quella volta scoprii che la mia famiglia proveniva addi¬rittura da Aquileia, la città romana distrutta dai Longobardi; da non credere, proprio loro.
Con tutte le ricchezze che avevano accumulato, scapparono sulla laguna veneta e contribuirono alla nascita di Venezia. Un Soricelli diventò doge di Venezia ma non capii mai il perché, costui si chiamasse Soronzio (1312-1328). Una volta alla televisione sulla facciata di un palazzo antico vidi scolpito il mio cognome con alla fine un apostrofo e una esse staccata. Chissà cosa significava?
Un' amica di mia nipote Simona è americana e, visitan¬do un museo negli Stati Uniti dove puoi avere informa¬zioni circa i cognomi di tutto il mondo, chiese di Soricelli, sapendo che anche mia sorella Emilia, madre di Simona (buon sangue non mente) aveva la mia stessa mania. Si fece fare una pergamena (anche lì, per undici dollari, stilavano le riproduzioni su pergamena) scritta natural¬mente in inglese che io mi sono fatto tradurre. Secondo tale pergamena il cognome significa: «Molto veloce, veloce e scattante come un topo» (ma l'antenato non si poteva parago¬nare a un ghepardo?) e probabilmen¬te queste erano le caratteristiche di colui che diede origine al cognome. Lo scritto recitava: «Famiglia nobile originaria delle provincia di Bologna»: si trattava di un ritorno alle origini quindi. Dal mio cognome è scaturita una serie infinita di soprannomi per me, per i miei figli e per gli altri componenti della famiglia: Sorcipelli, Topolino, Lino, Sorry (chissà cosa pensa la gente che non mi conosce quando sente chiamare: "Sorry!" sem¬bra sempre che mi abbiano pestato i piedi o urtato), Sorcio, Sorco e tanti altri ancora.
In conclusione da dove vengo? Ne so quanto prima. Conoscere le nostre radici per noi emigrati rimane sempre molto importante: ci sentiamo come in un limbo, in una situazione sospesa, né carne né pesce insomma. Qui a Bologna siamo dei maruchèin, anche se ci stiamo da una vita come il sottoscritto; a Benevento siamo bolognesi, con uno strano accento che fa sorride¬re.
Il Villaggio Ina Casa era ed è tuttora l'ultimo gruppo di case di Bologna che dalla via Emilia si incontra sulla destra per andare a Modena, a sinistra adesso c'è l'Ipercoop.
lo stavo al diciassette di via del Carroccio, nell'ultimo palazzone bianco; ce n'erano quattro tutti uguali di cinque piani, i più alti del Villaggio, appena passati l' asilo e la scuola elementare; per noi bimbi erano veramente imponenti, come i grattacieli di New York; sulla sinistra della via, di fronte, c'era la chiesetta in legno e più avanti altre case di tre piani. Nel mio palazzo c'erano venti famiglie, tutte numerose, e, all' epoca, solo da noi, abita¬vano più bimbi e ragazzi che in tutto il quartiere di Borgo Panigale adesso.
Papà era un gran lavoratore e non ricordo una volta in tanti anni che sia stato a casa in malattia; mi è rimasta impressa molto bene la sua ostinazione, la sua grande forza di carattere. Una volta, ad esempio, si ruppe un vetro di casa e andò da un vetraio a Borgo Panigale, di fronte alla fabbrica Ducati (dove fanno le famose moto), per comprarne uno nuovo. Ne prese uno e si avviò a piedi verso casa ma nel tragitto incocciò contro qualcosa e il vetro si ruppe. Allora tornò indietro e si fece tagliare un altro vetro su misura e sempre durante il ritorno a casa, una signora non vide il vetro, un botto e quello riandò in frantumi. "Mannaggia a chi le muorto a chella! " disse a casa quando raccontò il fatto. Tornò per l'enne¬sima volta dal vetraio che si commosse nel vedergli spendere tutti quei soldi e si offrì di portarglierlo con il furgone, ma niente da fare, mio padre ripartì con il solito vetro, più baldanzoso che mai (il vetraio ormai aveva imparato le misure a memoria e non gliele chiese nemmeno); all'improvviso si alzò una folata di vento e trac, con un colpo secco il vetro si spezzò in due. Oramai era diventata una questione di principio, una sfida, e così tornò dal vetraio, che quando vide ancora una volta mio padre, oltre ad essere contento per l'incasso, immagino si mordesse le labbra per non ridere. Riprese il vetro, e, finalmente, riuscì a portarlo a destinazione; quando lo vedemmo arrivare era tutto stravolto, sanguinante, con i pochi capelli spettinati, ma con il vetro perfettamente Integro.
Una mattina d'estate lo vidi davvero arrabbiato. Noi ragazzi eravamo in gruppo nel retro del palazzo del quindici di via del Carroccio, quando all'improvviso lo vedemmo dirigersi verso di noi. Un ragazzo stava spellando un albero con un coltellino e mio padre gli si avvicinò e gli disse a voce bassa e con lo sguardo cattivo: "Lascia stare gli alberi, vanno rispettati come le persone." Lui è sempre stato riservatissimo con gli estranei e per intervenire e dire qualcosa a figli di altri doveva essersi veramente alterato.
Nonostante la sua età conservava ancora degli aspetti fanciulleschi. Alla fine degli anni Cinquanta iniziai una raccolta di figurine che compravo dal giornalaio; ognuna rappresentava uno Stato: a fronte c'era un'illustrazione un uomo o una donna con il costume tradizionale e con la bandiera nazionale, mentre sul retro si trovavano scritti i dati essenziali di quella nazione: la capitale, la popolazione, 1'estensione del territorio in chilometri quadrati e il numero degli abitanti. Ad esempio, la Rhodesia era rappresentata da un uomo di colore che indossava una pelle di leopardo; l'Italia da uno con i baffetti da siciliano e la torre di Pisa; la Francia da una persona con il costume tradizionale francese e la Torre Eiffel. Avevo già riempito mezzo album quando papà vide la collezione e cominciò a interessarsene. La passio¬ne prese anche a lui e quando la mattina tornava a casa dal lavoro passava dall' edicola e comprava tre bustine di figurine dicendo, per giustificarsi, che erano per me. Le apriva sotto i miei occhi, dopo aver riposato, mangiato e atteso che tornassi da scuola. Mi ricordo la solita frase: "Mannaggia a chile muorto, un'altra Francia!» oppure, trovava Ungheria o Spagna che erano le più comuni. Le figurine che rappresentavano gli Stati Uniti d'America, la Bolivia e il Pakistan erano davvero introvabili e ricor¬do che quando una volta, aprendo una bustina, vidi la mitica figura dell'indiano che rappresentava gli Stati Uniti mio padre sorrise compiaciuto. A me parve di aver trovato lo stesso tesoro di quel tedesco che scoprì le rovine di Troia e il tesoro di Priamo. Paragonavo le dimensioni in chilometri quadrati degli Stati Uniti con quelle dell'Unione Sovietica e mi chiedevo come i primi facessero a tenere testa ai russi pur avendo a confronto un territorio così piccolo.
Ancora adesso ho quella collezione di figurine che mio padre ha conservato fino alla sua morte, (quando mi sposai la volle tenere lui) e se mi capita di sfogliarla mi arrabbio come allora notando che mi manca il Pakistan.
Rammento un episodio tristissimo che però mi fece sentire orgoglioso di lui. Una mattina lo vennero a chiamare mentre era a letto a riposare perché c'era stato un incidente ferroviario proprio dietro casa nostra. La ferrovia che congiungeva il nord col sud passava a poche decine di metri da noi, il passaggio a livello era rimasto inspiegabilmente aperto e una macchina era stata travol¬ta dal treno in arrivo.
All'interno dell' auto c'erano tre persone rimaste ucci¬se che avevano i corpi dilaniati e i cui resti erano sparsi per diverse centinaia di metri. Arrivarono i carabinieri, la polizia e i vigili del fuoco ma nessuno aveva il coraggio di raccogliere quei corpi così orrendamente sfigurati. Un vicino, ricordandosi di mio padre e del suo passato di carabiniere, suonò alla nostra porta. Papà si alzò dal letto, si recò sul luogo del disastro e raccolse le persone uccise. Più tardi, quando tornò a casa, lo vidi amareggia¬to e con gli occhi umidi.
Quando era un giovane carabiniere aveva partecipato a diverse gare di marcia ottenendo dei buoni risultati. Una volta il Capitano promise una licenza premio a chi avesse vinto una corsa di trenta chilometri; partirono tutti, circa un centinaio, e mio padre vinse, ma per la stanchezza gli venne una febbre altissima e la licenza la passò a letto.
Quando a mezzogiorno pranzavamo, per mia madre doveva essere una grande sofferenza; papà dormiva fino alle due a causa del turno di notte, Dante e Emilia, che erano un po' più grandi di me, tornavano dalle medie e mangiavano più tardi e, l'altro fratello, Severino, lavora¬va già e all'una meno un quarto doveva tornare sul posto di lavoro: insomma solo tra sparecchiare e riapparecchiare mamma stava impegnata diverse ore in cucina. Alla sera cenavamo tutti insieme sul grande tavolone di legno che papà aveva portato da Benevento e che occupava tutta la cucina perché doveva ospitare dieci persone. Prima di iniziare a mangiare attendevamo che papà si alzasse dal letto; stava sveglio fino alle sei di sera e poi tornava a letto per un paio d'ore prima di riprendere il turno di notte. Quando eravamo già a tavola lo sentivamo tirare 1'acqua, aprire il rubinetto del lavandino e poi, dopo circa dieci minuti, arrivava. Ma per la fame che avevamo quel lasso di tempo sembrava un'eternità. La cena consisteva soli¬tamente in un enorme piatto di pasta e una piccolissima bistecca, tanto minuscola che ci voleva la lente d'ingran¬dimento per vederla. Spesso c'erano anche delle verdure cotte, un pentolone intero che bolliva per circa due ore e che inevitabilmente mi faceva andare in bagno; imma¬ginate la sofferenza per uno che soffre di colite avere il gabinetto quasi perennemente occupato. A tavola si parlava poco e appena qualcuno esagerava papà lo zittiva dicendo: "Silenzio, quando si mangia si combatte con la morte". Si riferiva alla possibilità che parlando il boccone potesse andare di traverso.
Durante i primi anni a Bologna mamma cucinava quello che era abituata a preparare a Benevento. Spesso faceva un piatto unico formato da peperoni sotto aceto - che venivano conservati dentro damigiane in cantina - ai quali aggiungeva delle patate bollite e dei tocchetti di carne che potevano essere costolette o pezzi di salsic¬cia. Altre volte c'erano verdure cotte, con le solite patate lesse, aglio e pomodori, il tutto condito con olio d'oliva ricavato dalle piante che mio padre aveva al paese; spesso il piatto unico era formato da spaghetti al pomo¬doro e basilico. Il pomodoro era preparato dalla mamma e conservato dentro bottiglie di vetro: era fatto bollire e insaporito con pezzi di carne, salsicce, costolette o pollo. Quando mamma cucinava, sembrava di essere in una cucina dell' esercito tante erano le persone da sfamare.
Mi ricordo che in quegli anni a Bologna il pane era ottimo; mi piacevano specialmente le rosette - piccole pagnotte di pane a forma di rosa - eccezionali con dentro la mortadella: «proprio speciali», era l'espressione che usava papà quando gli piaceva qualcosa. Col passare degli anni mamma diventò anche un'otti¬ma cuoca di specialità bolognesi: le lasagne che cucinava erano buonissime. Una volta, avrò avuto circa sei anni, eravamo a tavola e vidi mio padre che cercava di rosicchiarsi un osso. lo lo guardavo perplesso e gli chiesi cosa stesse facendo; con espressione seria lui rispose che nella vita bisognava riuscire a far tutto e poi continuò a rosicchiare allungan¬do un osso anche a me. lo guardai l'osso per qualche istante e poi provai a sgranocchiarlo sotto gli occhi curiosi dei miei fratelli e sorelle; ma proprio non ci riuscivo e così volsi lo sguardo verso mio padre. Dovevo avere un'aria piuttosto abbattuta poiché lui cominciò a ridere fragorosamente seguito a ruota dal resto dei miei fratelli, così capii che mi aveva fatto uno scherzo.
La mamma, Adelina, era una donnona alta, mora e robusta; era nativa di Pastene, una frazione vicina a Benevento. Si sposò quando aveva ventiquattro anni, dopo una doverosa richiesta di fidanzamento di mio padre al nonno Antonio. Mi ricordo che papà rimprove¬rava spesso la mamma per la sua ingenuità e le diceva che era "gnocca gnocca" (è evidente che il significato è diverso da quello corrente qua a Bologna).
Nonno non l'ho mai conosciuto; mio padre diceva che era gigantesco e che da giovane, quando emigrò in Argentina, piegò un toro prendendolo per le corna. Era un uomo molto alto e il fatto curioso era che cresceva anche dopo la sua morte: in tutte le occasioni che lo ricordavano, aumentavano la sua altezza di almeno cin-que centimetri. L'ultima volta che ne parlammo aveva già raggiunto i due metri e dieci centimetri.
In tempo di guerra, durante l'occupazione tedesca, i nazisti avevano montato un loro accampamento a poche centinaia di metri dalla nostra casa a Benevento. Un giorno mia madre portò i miei fratelli più grandi Anto¬nio, Pina, Saverio e Carmine all' accampamento; si era sparsa la voce che stessero cercando dei bambini che avevano rubato delle vettovaglie e voleva dimostrare con quella azione che i suoi figli non c'entravano niente. Quando si presentò ai tedeschi cercò di dire le sue ragioni ma, uno di loro, inveendo nella sua lingua, si avventò contro mia madre e i miei fratelli provando a colpirli; fortunatamente in quel momento un altro soldato estras¬se la pistola e con fare deciso la puntò contro il camerata che, spaventato, si calmò. Poi, con un veloce cenno del braccio e un «raus, raus» allontanò i miei cari ancora terrorizzati.
Ho sempre considerato quell'oscuro soldato un vero eroe; chissà, forse in quei bimbi biondi con gli occhi azzurri aveva rivisto i suoi figli che probabilmente lo aspettavano in Germania.
Papà era un monarchico e, quando già adulto gliene chiesi la ragione, mi disse che la volta in cui si era arruolato volontario nei carabinieri aveva giurato fedeltà al re e a questo patto non sarebbe mai venuto meno. Per lui dev'essere stato un trauma quando i monarchici si fusero con il Movimento Sociale Italiano; ai fascisti non perdonò mai di essere entrati in guerra. Diceva comun¬que che Mussolini aveva fatto anche tante cose buone ma che la libertà era la cosa più importante. Ad ogni modo era un democratico e diceva che bisognava saper ascol¬tare tutti. Ricordo che, quando ancora molto piccolo, gli chiesi se potevo andare alla Festa de l'Unità che avevano organizzato al Villaggio mi rispose con un: “E perché no!”
Per risparmiare risuolava le scarpe, era capace di rammendare gli abiti ed era anche bravissimo a cucinare; per tanti anni era stato da solo ed era diventato uno specialista nei lavori domestici.
A proposito di scarpe, mia sorella Teresa una volta diede via l'unico paio decente che avevo, scambiandolo con un bambolotto rifilatole da uno di quei personaggi che giravano per le strade con lo scopo di imbrogliare il prossimo.
Papà di rado manifestava apertamente i suoi senti-menti e le sue emozioni e quindi pensavo se ne fregasse di noi, poi da adulto ho capito che era solo una persona molto riservata. Una volta feci alterare i miei genitori. Nell'aria si avvertiva già un clima sessantottino e noi ragazzi, come gran parte dei giovani, eravamo tutti di estrema sinistra. Un giorno, stavo seduto sulla poltrona di legno della sala e leggevo un libro illustrato che parlava della Rivoluzio-ne Cinese. Quando mia madre vide quelle illustrazioni piene di bandiere rosse e pugni chiusi mi chiese che cosa stessi leggendo; io, esaltato, risposi con una massima di Mao: "La rivoluzione non è un pranzo di gala." Mi guardò negli occhi e poi perplessa si voltò verso mio padre seduto al tavolo di vetro nero che si trovava al centro della sala e disse: "Giovà, ma chisto che sta dicenno?" Papà, che era immerso come al solito nella sua lettura dell'araldica (non si spiegava come quell'an¬tenato del settecento potesse aver avuto un figlio a otto anni) sollevò per un attimo lo sguardo, guardò il mio libro che era grande come un atlante e scosse la testa; poi tornò a immergersi nella sua lettura. Papà raccontava spesso episodi della sua infanzia e della sua giovinezza. Parlava soprattutto dei suoi fratelli, ne aveva otto tra maschi e femmine. Raccontava che a quattordici anni era molto grande e tutti lo chiamavano Giovannone, poi, gli invidiosi, gli fecero «o' maluocchio» e così gli bloccarono la crescita. Si fermò a un metro e sessantotto e mezzo; quel mezzo era sempre pronuncia¬to con un timbro di voce più alto, quasi che fosse quello a determinare la sua altezza. Ci parlava di continue sfide tra ragazzi per stabilire chi fosse il più forte; essendo molto modesto ne lanciava in continuazione e natural¬mente, a detta sua, le vinceva tutte. Un giorno sfidò quello che era considerato il più forzuto in assoluto, uno piccolino di statura ma con una forza incredibile; papà diceva che era capace di sollevare un quintale di grano e caricarselo sulle spalle senza nessuna fatica. Il ragazzo accettò il duello: avrebbe vinto chi fosse riuscito a mettere con le spalle a terra l'avversario. Naturalmente l'epico scontro fu vinto da mio padre e il piccoletto, sentendosi umiliato davanti a tutti i ragazzi del paese, se ne andò via minacciandolo e dicendo che prima o poi gliela avrebbe fatta pagare. A questo punto intervenne il fratello di mio padre, Arminio, il terzo maschio, che non aveva paura di niente e a soli quattordici anni aveva già la fama di duro. Una sera, al buio, aspettò nascosto quel tipo, gli saltò davanti all'improvviso e puntandogli un coltello alla gola gli disse: "Che vai dicenno? Che vuoi fa' a Giovanni? Nun ce provà a tuorcergli manco nu capillo ... chisto to' passo da parte a parte! " Il ragazzo terrorizzato andò via e da allora la smise con le minacce. Questo episodio ci sarà stato raccontato per lo meno un centina¬io di volte. Un altro fratello, il secondo, si chiamava Sabato il vero nome di Arminio era Domenico) ma veniva chiama¬to Sabatiello; era magro con il naso un po' adunco ed era simpaticissimo, scherzava sempre; inoltre possedeva una capacità unica di comunicare con gli animali. Ricordo che aveva un pastore tedesco che chiamava Lupo e quando andavamo a Benevento in vacanza assistevamo a delle scene veramente incredibili: mio zio gli si avvici¬nava e gli sussurrava: "Lupo, vammi a piglià le scarpe, chelle che sono vicino a o focone [il camino] into a casa vecchia." (quella dei nonni diroccata dal terremoto) e vedevi il cane partire e tornare dopo pochi minuti con in bocca le scarpe che lo zio aveva chiesto. Oppure: "Lupo non vego a Ngiulina [sua moglie]. Vai a vedè dov'è e portemella ca"', e Lupo arrivava trascinando la zia per una manica. Una volta la scena fu veramente travolgente: la gatta di mio zio aveva fatto i piccoli e aveva dato loro il latte. Una volta finito, i gattini cominciarono a uscire dalla cesta e a scappare da tutte le parti. Lo zio si avvicinò al cane e gli disse: "Lupo i micilli [gattini] stanno tutti scappanno, valli a piglià." Il cane andò a prendere i gattini per la calotta e li risistemò dentro la cesta; solo che mentre ne metteva dentro uno, gli altri scappavano, e continuò così per diverso tempo tra le risate di tutti quelli che assistevano alla scena. Papà raccontava che da giovani, al ritorno dalla messa della domenica, un grup¬po di ragazzi alti e robusti iniziarono a sfottere zio Sabatiello e lui doveva stare zitto perché quelli erano tanti e più grandi di lui. Questa storia andò avanti per parecchio tempo e lo zio raggiunse il colmo della soppor¬tazione: una sera si incamminò lungo il tragitto come di consueto e notò, ai bordi della strada, dei paletti che il contadino aveva piantato nel terreno; ne estrasse uno e lo rimise dov'era, appoggiandolo solamente dentro al buco. Il giorno dopo i soliti ragazzi cominciarono a schernirlo e lui proseguì il suo cammino stando zitto, poi quando arrivò nei pressi del paletto, fece uno scatto, lo estrasse e cominciò a menare legnate a destra e manca gridando: "Strunzi, pigliateve a cheste!" così che tutti scapparono malconci e, da quella volta, lo lasciarono in pace.
La mamma era sempre di ottimo umore e cantava in continuazione, anche quando cominciava ad avere dei problemi di cuore e degli acciacchi dovuti all'età. Basta¬va che stesse un po' meglio perché con la sua voce melodiosa cominciasse a cantare. Intonava soprattutto canzoni napoletane, mi ricordo O sole mio, Maruzzella, Torna a Surriento, Cerasella e tante altre. Si rabbuiava solo quando papà, da buon meridionale, le faceva delle scenate di gelosia del tipo: "Do' si stata?" o "Perché guardi a chillo?", e così di seguito.
Negli attimi di tempo libero rubati a una famiglia così ingombrante e numerosa la mamma si metteva a leggere Grand Hotel e soprattutto le storie d'amore a puntate che la rivista pubblicava ogni settimana. lo leggevo la striscia di "Pippinella la sbruffoncella" perché si chia¬mava con il soprannome di una mia sorella. Comprava anche le dispense settimanali con la storia del bandito Giuliano ma qualsiasi situazione romantica la commuo¬veva. Si metteva seduta su una sedia vicino alla finestra con il giornale in mano, e la vedevo spesso con le lacrime agli occhi. Nonostante non avesse mai frequentato la scuola, grazie a un parente che andava a darle lezioni in casa quand'era ancora una bimba, aveva imparato a leggere e scrivere.
Aveva una grande intelligenza ed era anche abbastanza colta; d'idee molto più moderne di mio padre, nonostante non si fosse mai mossa dalla contrada del sud dov' era nata.
La vecchia zia Arcangela, sorella maggiore della mam¬ma (che siamo andati a trovare pochi anni fa e che ha già superato i novanta anni) ha una grande passione per le piante e i fiori. Quando gliene chiesi la ragione - aveva circa un centinaio di fiori e pian te nel cortile di casa - mi raccontò che da giovani lei, la mamma e le altre sorelle avevano a disposizione ciascuna un fazzoletto di terra che il nonno Antonio aveva regalato loro, e, tutte insie¬me, facevano a gara a chi avesse i fiori e le piante più belle. Anche mamma, sulla piccola terrazza dell'appar¬tamento di Bologna, curava con tanto amore moltissime piante, una passione che ho ereditato io stesso.
Una volta che andai in montagna in primavera presi delle piante che facevano dei piccoli fiori blu e le interrai in un lungo contenitore di cemento sul terrazzo di casa; mia sorella più grande le scambiò per piantine di aglio ¬ogni tanto piantavamo anche quelle -e si fece una bella frittata che mangiò con gusto. Quando due giorni dopo notai che le piante non c'erano più e chiesi chi le avesse strappate, mia sorella si precipitò di corsa in bagno anche se le aveva già digerite da un bel pezzo.
Ricordo ancora la fatica della mamma quando torna¬va a casa dopo aver fatto la spesa con le borsone stracolme di cibo: c'erano tutti i giorni due chili di pane, più verdura, uova, formaggio o carne, detersivi e tante altre cose. Arrivava ansimante dopo aver fatto tutte le rampe delle scale per salire fin su al quinto piano. Pianse a lungo quando vide il bottegaio che gli vende¬va i formaggi e i salumi morto d'infarto per terra sul selciato mentre cercava di togliere la neve dal tetto del baracchino dove lavorava: pensava al figlio sordomuto che sarebbe rimasto orfano.
Mi ricordo che dopo pochi mesi che stavamo a Bolo-gna alla mamma cominciò a crescerle la pancia; aveva già quarantaquattro anni e molti capelli bianchi. Pregava spesso, probabilmente per il figlio che aveva in grembo. Poi, una sera di gennaio del '55, vidi arrivare una donna che mi dissero fosse la levatrice; la signora andò nella stanza dove si trovavano i miei genitori e di lì a poco mio padre fu mandato fuori ad attendere con noi figli. Era¬vamo tutti trepidanti. lo sapevo che doveva nascere un bambino ma non comprendevo come sarebbe successo. In casa mia allora c'erano tanti tabù: chi parlava di nascite sotto i cavoli, chi di cicogne, mentre, in meridio¬ne, nascevano sotto le fave. Dopo pochissimo tempo sentimmo il pianto di un bambino; la levatrice chiamò mio padre che poco dopo tornò da noi e ci disse sorri¬dendo: "E femmena!» Poi, pian piano, entrammo tutti nella camera. Quando toccò a me rimasi a bocca aperta nel vedere quella bimba piccolissima, proprio non riu¬scivo a spiegarmi da dove fosse arrivata: non vedevo né cavoli, né fave e nemmeno cicogne nei paraggi. Pia, così chiamarono mia sorella, diventò biondissima (portò sempre i capelli lunghi) e i suoi occhi erano e sono di un azzurro intenso, come un cielo sereno a primavera, gli stessi di mia figlia Elisa. Diventò subito la «Cocchina» di papà che le diceva sempre che avrebbe sposato un principe. Pia si addormentava spesso sulla poltrona di casa e ricordo ancora che una volta che sonnecchiante si stava dirigendo verso la camera da letto, quando mia sorella Teresa - una gran burlona - le disse: "Pia, Pia scappa, scappa che c'è un osso di formica!» e lei terrorizzata corse tra le braccia della mamma che era in cucina.
A Benevento le donne partorivano in piedi e anche io sono nato così. Dopo le doglie, la levatrice faceva mette¬re la mamma in piedi appoggiata al comò; nacqui per i piedi e «con la camicia», così dicevano sempre le mie sorelle quando raramente mi toccava qualche colpo di fortuna. Quando avevo circa otto anni ci fu un episodio che ricordo come uno dei più belli e toccanti della mia vita. Quella sera ero particolarmente inquieto, anche perché in casa mia non mancavano mai i racconti di mio padre riguardanti storie di spiriti o fantasmi, di bimbi con due teste, di omoni con pentoloni sulle spalle che dovevano essere diavoli e che andavano incontro a mio padre chiedendogli cosa volesse in cambio della sua anima; incontri, a suo dire, che aveva sempre quando da carabi¬niere tornava di notte in permesso a Cesine. Mi avvicinai silenzioso alla stanza dei miei genitori; volevo farmi un po' rincuorare dalla mamma e starmene un po' di tempo nel suo letto. Aprii lentamente la porta e vidi mia madre che teneva tra le braccia la mia sorellina Pia che aveva una febbre altissima, tremava tutta e diceva frasi scon¬nesse. Quando la mamma sentì l'uscio aprirsi si voltò verso la porta e strinse mia sorella con forza al petto come per proteggerla, con uno sguardo pieno di paura ma anche di sfida. Appena vide che ero io si rilassò e l'accarezzò. Non le chiesi mai il motivo di quell' atteggia¬mento ma l'avevo comunque capito: pensava che la porta l'avesse aperta la morte che veniva a prendere la sua bambina più piccola. Quello sguardo fiero e di sfida è uno dei ricordi più belli e veri della mia vita e mi ha fatto comprendere la grandezza delle donne e l'amore insuperabile che provano per i loro figli.
C'era un fatto per me veramente inspiegabile riguar¬dante la mamma. Quando da bambino stavo poco bene, mamma aveva la capacità di far passare i dolori, soprat¬tutto il mal di testa; mi ricordo che, all' occorrenza, si toglieva la fede nuziale, la prendeva tra le dita e, facen¬domi un segno della croce sulla fronte, iniziava a muove¬re le mani nei punti in cui avevo male e intanto pronun¬ciava una preghiera. Ogni tanto muoveva le mani, come se afferrasse qualcosa tra le dita e poi, faceva un gesto, come per buttare via il mio mal di testa: inspiegabilmente, solo dopo pochi minuti, i dolori passavano. Ora si parla di pranoterapia e mia madre probabilmente la eseguiva già con modi che gli erano stati tramandati da chissà quante generazioni. lo stesso ho questa dote e a volte, con il calore delle mani riesco a far passar i dolori.
Una volta la combinai veramente grossa e la mamma si arrabbiò tanto. Avevo circa otto anni e un giorno, mentre mi stavo recando a scuola costeggiando la siepe che c'era alla destra di via Pontida (anche questa strada era piena di meridionali) vidi, nascosto tra due rami, un uovo. Incuriosito lo presi e, sentendo che era pieno, me lo misi in tasca; sembrava un comune uovo di gallina ma grazie alla mia fantasia sempre galoppante, pensai fosse di falco, di aquila o di chissà quale altro uccello misterio¬so. Lo infilai nella tasca dei pantaloni corti e tornai ad incamminarmi verso la scuola; mentre mi avviavo medi¬tavo su come avrei potuto far nascere quel pulcino. Poi, arrivai in classe e mi sedetti aspettando il momento propizio (che non arrivava mai) per far vedere ai compa¬gni il mio ritrovamento. Arrivò finalmente l'ora di pran¬zo e, mentre ci recavamo in refettorio, raccontai a tutti miei amici che, dopo aver mangiato, avrei fatto vedere loro quell'uovo misterioso che avevo trovato per strada. Ci mettemmo a sedere quando all'improvviso, a seguito di una mossa brusca, l'uovo mi si ruppe in tasca e una puzza nauseabonda invase tutto il refettorio. Le maestre fecero alzare tutti i bimbi, che erano circa un centinaio, e chiesero chi avesse provocato quella puzza terribile: nessuno fece il mio nome ma tutti gli sguardi si puntaro¬no su di me. Fui accompagnato in direzione e il preside, davanti a tutte le maestre, iniziò il terzo grado: "Dove l'hai preso?" "Chi te l'ha dato?" e via dicendo. Non sapevo cosa rispondere e innervosito da tutti quegli occhi fissi su di me dissi la prima cosa che mi passò per la mente, cioè che quell'uovo l'avevo preso sotto alla stufa a legna di casa mia. La bidella, grande e grossa (chissà perché erano tutte gigantesche) mi prese per un orecchio e mi portò a casa: ero stato sospeso per tre giorni. Quando la mamma aprì la porta e seppe cosa avevo fatto e detto, con grandissimo imbarazzo disse: "Ma che stai dicenno!" Prese una scopa in mano e andò a ramazzare sotto la stufa per far vedere alla bidella che lì sotto non c'era proprio niente. Quando mio padre si alzò da letto e seppe il fatto tirò fuori la cinghia e me ne diede tante, ma tante, veramente con gusto. Già diceva¬no che noi meridionali eravamo sporchi, che non aveva¬mo voglia di lavorare (le stesse cose vengono dette ora nei confronti degli extracomunitari), che mettevamo i pesci e le piante nella vasca da bagno. Ci mancava solo che si spargesse la voce che tenevamo le uova sotto la stufa per covarle, ed eravamo a posto.
Da piccoli mia sorella Teresa e io avevamo in testa dei magnifici boccoli che la mamma ci sistemava con cura. Un giorno, stanchi di questa tortura giornaliera, ci chiu¬demmo in camera. Papà e gli altri erano ancora a tavola perché la mamma dava la precedenza a noi più piccoli. Armati di un paio di forbicione che avevamo preso dal cassetto dei miei, pian pianino cominciammo a tagliarci i capelli (come al solito l'iniziativa fu di Teresa); l'opera¬zione continuò fino a quando in testa non ci rimase nemmeno una ciocca e poi, per non far vedere quel che avevamo combinato, nascondemmo i capelli tagliati in un giornale sotto il letto e tornammo con fare sicuro in cucina convinti che non avrebbero scoperto niente. Quando arrivammo dagli altri ci fu il silenzio più assolu¬to, poi tutti esplosero a ridere e la mamma si disperò perché non avrebbe più potuto fare i boccoli a Teresa, e a me, la mitica banana.
Mamma mi raccontava spesso un episodio che mi riguardava e che era accaduto a Cesine: un giorno, mentre stavano passando i braccianti che tornavano dal lavoro, uscii di corsa dalla casa e con fare marziale narciai tutto nudo con in testa quello che a Benevento chiamano pisciaturo e qui a Bologna «al ves da not».
Nel mese di maggio iniziavano i rosari serali. Mamma si metteva in ginocchio a fianco di una sedia e noi tutti intorno a lei in cerchio sempre in ginocchio. Iniziava con queste parole che noi dovevamo ripetere assieme a lei: 'Aggio murì, aggio passà a valle di Giosufat" o qualcosa di simile, ma di sicuro comunque ricordo che dovevo morire. Questi rosari venivano ripetuti per moltissime volte e a me sembravano interminabili e noiosi; non riuscivamo mai a convincerla a non partecipare e se qualcuno di noi mancava, lei teneva il muso per diverso tempo.
La famiglia di mia madre, dopo la morte del nonno Antonio, era diventata evangelica. I miei cugini da parte di mamma, che stanno ancora in meridione, furono tutti battezzati alla maggiore età in fondo al fiume che passava di fianco alla loro casa e nelle loro abitazioni avevano delle gigantesche fotografie, coperte da teli, delle sorelle della mamma morte in giovane età.
Mamma ogni tanto perdeva la pazienza e allora con fare serio diceva: "M'avite proprio scucciata, me faccio venì a piglià dagli angeli", poi apriva la porta del nostro appartamento, saliva le scale fino alla lavanderia collet-tiva, faceva un'altra rampa di scale, arrivava in cima fino al tetto del palazzo; noi più piccoli, disperati, le correva¬mo dietro pregandola di restare. Dopo un po' di suppli¬che riuscivano a convincerla e lei si appoggiava alla ringhiera in cima al palazzo e ammirava il panorama: da lassù Bologna era bellissima.
Intorno ai sette, otto anni, giravo sempre nudo per casa e mia madre puntualmente mi diceva che non dovevo farlo, che era sconveniente. Quel giorno, per l'ennesima volta, mi disse di vestirmi e come al solito io facevo le orecchie da mercante. Allora, con fare serio, mi disse che, se non mi fossi vestito, me lo avrebbe tagliato. lo sorridevo e pensavo: «Figurati se lo fa», ma lei prese le forbici e il mio pisello e si avvicinò facendomi sentire leggermente la pressione delle lame (facendomi anche un po' male) e poi mi guardò in faccia, sempre col mio "coso" in mano chiedendomi: "Aggio continuà?" La guardai e, scuotendo la testa, decisi di rivestirmi: da quel giorno non girai più nudo per casa.
Dell'importanza della mamma ce ne accorgemmo quando, una mattina d'inverno, mentre tornava a casa dalla spesa, scivolò sul ghiaccio e si ruppe una gamba. La portarono all'Istituto Ortopedico Rizzoli, e la ingessaro¬no, così che dovette rimanere a letto immobile per quindici giorni. Dovemmo occuparci tutti noi delle faccende di casa. A me toccava andare a prendere il carbone in cantina, vuotare il bidone della spazzatura e apparecchiare. In casa erano continue liti tra di noi: "lo faccio di più!" "Tu non fai niente, io ho già sparecchia¬to!" "lo ho fatto i letti!" un po' quello che fanno ora i miei figli Elisa e Lorenzo.
Per fortuna la mamma si ristabilì presto. Una volta costrinse mio padre, che era molto riluttante, a farle una puntura; per lei era una cosa estremamente semplice e normale, con tutti quei bambini in casa, e anche a me ne aveva fatte tante nonostante mi dovessero tirare fuori con la forza da sotto il letto. Mio padre si fece spiegare come avrebbe dovuto agire e le trapassò il sedere tra gli urli della mamma, poiché aveva capito che doveva lascia¬re entrare anche il supportino dorato che teneva fermo l'ago. Così la puntura fece infezione e mia madre dovette andare all' ospedale a farsi operare per asportare l' asces¬so che si era formato.
Quando i miei genitori andavano a Benevento com¬pravano un maiale come ai vecchi tempi; mamma aveva un rapporto speciale con piante e animali. Ricordo con tenerezza un giorno in cui ero alla finestra e guardai dietro casa dove c'era il recinto nel quale teneva il maiale; lei lo chiamò: "Ciccò, Ciccò!" E questo trotterellando arrivò dalla mamma che l'accarezzò a lungo sulla testa fino a quando, tutto soddisfatto, se ne andò via sempre trotterellando. Raccontava che una volta si prese una gran paura; aveva lasciato mio fratello più grande Saverio, allora di pochi mesi, appoggiato all'ombra di un albero in mezzo ai campi, quando vide il maiale che gli si avvicinò con la bocca già spalancata per "papparselo". Fece appena in tempo a urlare, a correre incontro a mio fratello e ad afferrarlo riuscendo così a scampare il pericolo.
Mamma ha sempre avuto la convinzione che avrebbe avuto una vecchiaia agiata, serena e in salute come gli aveva predetto una zingara quando era ragazza: purtrop¬po morì in una mattina di aprile quando, lontana dai suoi figli e non certo con grandi disponibilità economiche, si trovava con mio padre nella casa di Benevento.
Già allora Bologna aveva dei servizi sociali di prim' or¬dine: ricordo che al Villaggio, nei primi anni Cinquanta, c'erano, oltre alle scuole elementari, l'asilo e il nido. La scuola elementare era moderna e aveva un refettorio dove servivano degli ottimi pasti. Una volta alla settima¬na veniva un medico a visitare i bambini e mi ricordo quant'era invidioso il mio amico Picciuna quando il dottore mi dava delle zollette dolci che probabilmente erano vitamine. C'era anche una palestra modernissima che i maestri trattavano né più né meno che come un salotto appena comprato; quando acquisti un salotto nuovo le poltrone sono avvolte in un panno per non graffiarle, così era per la palestra: le poche volte che ci portavano, gli attrezzi erano coperti da panni per timore che si rovinassero, ed era un continuo: "E state attenti qui!" "Non toccate là!" "Ammirare ma non toccare!" Mancava solo il grasso sulle pertiche in legno e poi era tutto in perfetto stato di conservazione.
Quando andavo alle elementari le uniche materie che mi piacevano erano geografia, storia e disegno. Sapevo tutte le capitali del mondo e lo stato di appartenenza, dove si trovavano i fiumi più importanti e la loro lun¬ghezza. Noi bambini facevamo a gara a chi ne sapeva di più e in geografia ero proprio imbattibile perché mi appassionava davvero.
Ricordo il maestro Marchini che ci portava lungo il Reno a cercare testimonianze dell' età della pietra; anche adesso, quando scorgo uno scavo, non posso far a meno di andare a vedere se affiora qualcosa, e la passione per l'archeologia mi è rimasta nel cuore.
Le aule delle scuola erano ampie e ospitavano tanti bambini, anche venticinque per classe. I tavoli erano di legno e verniciati di nero: in ognuno c'era una piccola cavità che conteneva il calamaio per l'inchiostro.
Della storia mi appassionavano gli antichi greci e gli eroi dell'Iliade, soprattutto Ettore, che pur sapendo di doversi scontrare con un guerriero invincibile come Achille, non esitò un istante a sfidarlo pur di difendere Troia. Me lo immaginavo quando combatteva contro Achille: in testa un elmo con il pennacchio rosso, il volto pallido, tirato per i colpi ricevuti, nonostante tutto continuava a lottare; quando cadeva sotto i colpi mortali, malgrado la sofferenza, i suoi occhi chiari erano ancora pieni di sfida; se avessi avuto tra le mani Achille quando trascinava il corpo di Ettore sotto le mura, lo avrei ammazzato.
Andavamo tutti a scuola a tempo pieno e a pranzo mangiavamo a scuola: ricordo ancora delle formidabili paste e fagioli e delle bistecche speciali, che forse mi sembravano così buone perché a casa ne mangiavo ben poche. Alla mattina, verso le nove, ci davano una tazza di latte con una rosetta e della marmellata. lo, il latte, non lo bevevo perché con la colite dovevo scappare subito in bagno.
La custode della scuola si chiamava Coletti e mi ricordo che aveva una forza straordinaria. Marcello Milò giocava sempre con le macchinine nell' atrio della scuola, disegnando col gesso la pista. Una volta la Coletti si spazientì e gli disse di consegnarle le macchinine ma lui se le mise in tasca, così la signora 1'afferrò per i piedi e lo sollevò a mezzo metro da terra: le macchinine gli volaro¬no tutte fuori dalle tasche e la custode poté sequestrar¬gliele. Marcello Milò era un bambino di origine calabrese che alle elementari era già grande e grosso, sarà stato sui quaranta - quarantacinque chili. Diceva di essere di fami¬glia nobile e ricca - i Milo, appunto - e che degli imbroglioni avevano aggiunto un accento al suo cogno-me, così da derubarlo di titolo nobiliare e ricchezza.
Per farci star tranquilli la Coletti ci diceva che quando andava in città non confessava mai a nessuno di essere una bidella del Villaggio perché si vergognava di noi che avevamo una brutta fama. In realtà ci voleva molto bene e spesso ci preparava dei saporitissimi ghiaccioli alla menta. Quando eravamo già dei ragazzi ci raccontò di quante risate si era fatta per i mille episodi a cui aveva assistito e di quante volte aveva dovuto trattenersi da¬vanti a noi altrimenti ne avremmo combinate di più grosse.
Una volta il maestro Santi lasciò sulla cattedra una moneta da cinquecento lire, di quelle d'argento, che erano state appena coniate. Tornò in classe e non trovan¬dola più, chiese chi l'avesse presa, ma quando vide che nessuno si faceva avanti minacciò di chiamare i carabi¬nieri. Capendo che il colpevole non l'avrebbe mai tirata fuori mise tutti in fila e ci fece entrare uno per uno dentro una stanza dicendoci che, chi aveva sottratto la moneta, avrebbe dovuto posarla sul tavolo. Al colpevole non sarebbe stato fatto niente e nessuno l'avrebbe mai sapu¬to. Sfilammo tutti come in processione e anch'io entrai nella stanza, ma al tavolo non ci arrivai nemmeno, visto che non l'avevo rubata io. Poi, il maestro chiamò il capoclasse e gli disse che la moneta era stata restituita e lui era rimasto nascosto dietro una porta comunicante e aveva visto tutto dal buco della serratura: noi comunque non sapemmo mai chi fosse stato il colpevole.
C'era anche quell'altro maestro che si chiamava Na¬poleone che aveva la passione per l'arte e mi fece vedere per la prima volta le opere di Morandi e Picasso trasmet¬tendomi quelle che sarebbero state poi le passioni più grandi della mia vita: la pittura e la scultura.
La maestra Tamari mi faceva arrabbiare perché a carnevale mi vestiva sempre da pagliaccio; mi metteva il naso finto e un cappello a cono e poi, sorridendo per come mi aveva conciato, mi diceva di raggiungere gli altri. La Tarunchio, un'altra maestra, quando la facevamo arrabbiare, si avvicinava tutta rossa in viso e diceva: "Una io e una il muro, una io e una il muro ", mostran¬do la mano in tono minaccioso.
La Griffi, severissima ma molto brava, ci portava sempre dei depliant di località turistiche che ci facevano sognare di fantastici viaggi; come diceva Picciuna, la Griffi doveva avere uno specchio incorporato da qual¬che parte perché "beccava" chiunque facesse baccano anche quand'era girata verso la lavagna.
La prima volta che mi innamorai fu in terza elemen¬tare: quella bambina mora, con gli occhi neri e i capelli a caschetto, mi faceva proprio palpitare il cuore. Mi faceva fantasticare come quando pensavo di fare l' esplo¬ratore e trovavo terre sconosciute o animali di cui non si sapeva l'esistenza; oppure quando mi vedevo archeolo¬go scopritore di civiltà misteriose; mi palpitava il cuore come quando il maestro mi fece vedere per la prima volta una riproduzione di un quadro di Morandi.
Non riuscivo a parlarle alla ragazzina col caschetto; quando la vedevo arrivare abbassavo la testa e diventavo rosso come un peperone. Lei naturalmente non sapeva nulla dei miei sentimenti, ma io, con la fantasia mi immaginavo di baciarla sulle labbra, proprio come face¬vano sulle illustrazioni di Grand Hotel. Aveva un nome splendido che sarebbe diventato per me importantissi¬mo, lo stesso della compagna che poi ho sposato, Floriana. Poco tempo fa l'ho incontrata casualmente dopo decen¬ni che non la vedevo e non mi ha riconosciuto; mi sono presentato e le ho ricordato chi ero e lei mi ha detto: "Mo' ve' come sei cambiato!" Roberto, bolognese, era il mio compagno di banco: era sempre ordinatissimo, indossava in maniera impec-cabile il grembiule nero con il colletto bianco e il fiocco azzurro. Finita la terza elementare andò ad abitare fuori Bologna; lo incontrai l'anno dopo allo stadio, quando andai a vedere una partita della Nazionale di calcio alla quale facevano assistere gratuitamente tutte le scolare¬sche. Lui tifava per Gaul, il ciclista, e per la Juventus. Ho sempre avuto una grande nostalgia di Roberto: aveva tutte quelle caratteristiche e quei pregi a cui un bambino come me aspirava.
Molti di noi ragazzi avevano avuto una difficoltà notevole ad ambientarsi e facevano fatica a esprimersi in italiano: anche in classe mia c'erano bambini di due o tre anni più grandi di me.
Tutte le estati, gratuitamente, andavamo in colonia per un mese, al mare o in montagna, a seconda dell'indi¬cazione del medico. In quei posti mi chiamavano «il commerciante» perché avevo la capacità di moltiplicare i fumetti, partivo solo con poche copie e tornavo a casa con delle pile enormi di giornalini di Topolino, Mandrake, Tex, Capitan Miki e tanti altri. Il mio personaggio preferito era Paperino, sempre sfigato e perennemente vittima dello zio riccastro Paperon de' Paperoni.
Nei mesi estivi andavamo spesso ai campi solari dove giocavamo tutto il giorno; d'abitudine i maestri organiz¬zavano delle gare sportive e io molte volte risultavo tra i primi. Un giorno un maestro organizzò una gara di resistenza e partecipammo in una trentina; si doveva percorrere tutto il perimetro del cortile della scuola. Giro dopo giro si iniziarono a ritirare tutti e dopo più di mezz' ora rimanemmo in gara Alceste - un ragazzo del Villaggio che aveva un fisico veramente prodigioso ed eccelleva in tutte le attività sportive - e io, che non volevo assolutamente cedere, piuttosto sarei morto. Dopo l'en¬nesimo giro, stavo quasi stramazzando al suolo per la fatica, vidi Alceste abbandonare il campo e così conclusi la gara da vincitore. Quando mi fermai i miei compagni mi dissero che avevo cambiato colore, da rosso ero diventato pallidissimo; ma io ero talmente soddisfatto che dopo pochi minuti mi ripresi e potei godere del mio trionfo.
Come ho già detto la mia era una famiglia modesta e i miei genitori spesso non avevano i soldi per comprare le cose che ogni bambino desidera. Una volta Di Saggio, un ragazzo bolognese che avrà avuto una decina di anni più di me, stava camminando verso casa e mangiava con gusto un gelato; notando la mia espressione nel guardare quel cono, mi guardò intensamente e poi, senza dire nemmeno una parola, me lo offrì. lo, orgoglioso co¬m'ero, lo rifiutai, ma quel gesto mi è rimasto veramente nel cuore come esempio di bontà e generosità.
Frequentavamo una gelateria, che ora ha cambiato nome e proprietari, ma si trova sempre all'imbocco del Villaggio, di fronte alla via Emilia: lì c'era un biliardino dove i ragazzi un po' più grandi di me facevano intermi¬nabili partite. Già allora c'erano i ghiaccioli confezionati e, se eri fortunato e trovavi la scritta «premio» sui bastoncini avevi diritto a un altro gelato in omaggio. Raramente io avevo i soldi per comprarlo e allora, cercavo nel prato davanti alla gelateria se qualcuno avesse buttato via il bastoncino senza accorgesene. Qual¬che volta ero fortunato e allora mi precipitavo da Mazzoni per farmi dare un altro ghiacciolo, lui mi guardava sorridendo, con aria complice, come per dire: "Guarda che lo so che l'hai trovato, però te lo do lo stesso." Quando avevo un po' di soldi andavo a comprare un gelato che si chiamava Cri-cri, era un cono ripieno di panna e rivestito di cioccolato, veramente ottimo.
Quel giorno del '57 fu particolarmente eccitante, l'euforia contagiava tutti e qualsiasi persona incontrassi parlava dell' avvenimento: per la prima volta nella storia dell'umanità, un razzo, lo Sputnik sovietico, era stato lanciato nello spazio. C'era chi era entusiasta e chi era preoccupato: i comunisti leggevano in quell'evento la superiorità del socialismo e sottolineavano come in Unione Sovietica si vivesse bene, come non ci fossero ricchi, ma nemmeno poveri, i figli dei lavoratori potesse¬ro studiare senza spendere niente e tutti avessero la casa gratuitamente; gli americani avrebbero dovuto preoccu¬parsi di questo razzo perché non avevano mezzi per fermarlo e potevano essere bombardati in qualsiasi mo¬mento. Quel giorno tutte le persone camminavano con il naso all'insù; alcuni avevano la faccia preoccupata, come se quel “coso" dovesse precipitargli addosso da un momento all' altro; io non riuscivo a capire se era un bene o un male che ci passasse sulla testa. Quando andai a casa chiesi un'opinione a mio padre, se era vero che i russi stavano bene e perché anche noi non facevamo come loro, papà mi rispose: "Là non ce sta a libertà, ce sta una dittatura come a chella che tenevamo ca' quando c'erano i fascisti," e aggiunse: "Mo' stimmo a posto, ce mancava pure sto coso che ce passa n'goppa a capa." Papà era bravo e onesto e gli credevo, ma anche i genitori dei miei amici erano brave persone, quindi avevo le idee più confuse di prima.
Quella sera fu incredibile, tantissima gente si era riunita davanti all' osteria dietro via Normandia perché si diceva che in cielo, di lì a poco, si sarebbe visto passare lo Sputnik: avevamo tutti gli occhi puntati verso il cielo. Nell'attesa un gruppo di ragazzi aveva portato un botti¬glione di vino; s'erano tutti seduti per terra in cerchio e facevano un gioco tipo "conta" con una pietra; cantava¬no una filastrocca che non avrei mai più risentito: "E lu, le là, che aspeta su mugliera e la barbera ... " e poi non ricordo cosa facesse la barbera. Cantavano tutti insieme e si passavano velocemente la pietra e chi restava con questa in mano, doveva bere un bicchiere di vino; mi ricordo che uno, in cinque giri, aveva dovuto bere quattro volte e rideva in continuazione. Ogni tanto si sentiva qualcuno gridare: "Eccolo!" Tutti ci fermavamo a fissare il cielo stellato, ma erano sempre falsi allarmi e del razzo non c'era traccia. Verso le dieci e trenta la gente cominciò ad andare a casa e pian pianino c'incammi¬nammo anche noi. Arrivai così in ritardo che mio padre mi aspettava sulla porta: "Do' si stato?" E io: "A vedere passare lo Sputnik." Mi mollò un calcio nel sedere e mi disse: "Toh o' Sputnik! " mentre con l'indice mi indicava la camera da letto.
Per noi meridionali l'inverno a Bologna era freddissi¬ma; nel nostro appartamento i primi anni non c'era il metano e ci scaldavamo con una stufa a legna che stava in cucina, una di quelle stufe bianche smaltate e con il piano in ghisa. Tutti i giorni andavamo dal quinto piano fino in cantina per prendere il carbone e la legna; gli indumenti venivano fatti asciugare sopra al supporto formato da diverse aste orizzontali che era attaccato al tubo di scarico. Eravamo così tanti che tutti i giorni quelle povere aste di ferro sopportavano diversi chili di roba; nelle camere poi la situazione era tragica, le coper¬te non bastavano mai e spesso, nei momenti particolar¬mente freddi, mettevamo anche dei cappotti sul letto per scaldarci. Nell'inverno del '57 nevicò parecchio e nei campi vicino al mercatino, la neve mi arrivava fino al ginocchio. Dall' osteria di legno ai margini del Villaggio, scendeva¬no le stalattiti di ghiaccio dal tetto e il fosso di fianco era completamente ghiacciato tanto che ci potevamo patti¬nare sopra con le scarpe.
Il Villaggio si era riempito di fortini circolari con sponde alte un metro e noi bambini eravamo impegnati in estenuanti battaglie con le palle di neve. Un pomerig¬gio la battaglia si fece particolarmente accanita. Il fortino di Picciuna e di Raffaele che si trovava in via Pontida, a sinistra del diciassette di via del Carroccio, era già stato espugnato da quelli di via Normandia. La loro banda era numerosa e formata da molti ragazzi più grandi simili a tanti Gulliver; noi, avevamo preparato una scorta enor¬me di palle di neve in previsione dell'attacco che ci sarebbe stato nel primo pomeriggio. Oltre ai ragazzi del diciassette, come alleati avevamo anche quelli del quin¬dici e di via Pontida due, quattro e sei: in tutto eravamo una ventina e aspettavamo con ansia l'attacco imminen¬te; ci sentivamo come gli assediati di Forte Alamo, man mano che passava il tempo e il nemico non si faceva vedere, il nervosismo aumentava. Stava già scendendo il buio e pensavamo che i nostri informatori ci avessero raccontato delle balle quando all'improvviso, da via Pontida, apparvero correndo i nemici con delle masche¬re di carnevale sul viso e scudi di legno per ripararsi. Si avvicinarono a noi correndo e urlando e cominciarono a pioverci addosso decine di palle di neve; io venni colpito diverse volte e quelle che mi arrivavano sulla nuca, per l'urto, si rompevano e mi scendevano lungo la schiena; questo succedeva quando mi chinavo a prendere delle munizioni per quelli che avevano il tiro più potente: ero tutto un brivido ma mi sentivo come David Crocket. In poco tempo esaurimmo le munizioni e fummo comple-tamente nelle mani del nemico che ci offrì la resa, ma noi orgogliosi rifiutammo. Mentre una parte di loro conti¬nuò a spararci, gli altri si avvicinarono correndo verso il fortino e cominciarono a colpirlo con dei calci fino a distruggerlo del tutto. Una volta completata l'opera il nemico si ritirò vittorioso nei propri territori. Ricordo che quella serata fu terribile, i piedi bagnati mi avevano provocato dei fastidiosissimi geloni ai piedi.
Furmaien (Formaggino) era il soprannome che ave-vamo dato, per via del suo cognome - vale a dire Parmeggiano - a un bambino che stava a pochi palazzi di distanza da noi. Era piccolo e moro e ricordo che la sua famiglia era appena tornata dal Belgio. Per un certo periodo diventò un nostro compagno assiduo poi, come spesso accade tra bambini, cominciò a frequentare dei ragazzi di un' altra zona. Me lo ricordo soprattutto per¬ché era il nipote di un anziano signore che vendeva i brustolini, quei semi di zucca che tanto piacciono ai bambini, e anche agli adulti. Spesso arrivava con un sacchetto di quelli di carta grigia, nei quali una volta si metteva dentro il pane, pieno di queste delizie e nelle serate infinite passate davanti a casa a chiacchierare di niente cospargevamo il muretto e la strada vicina di bucce. Vedevamo spesso partire il nonno di Furmaien con un piccolo contenitore di legno pieno di questi semi e una volta che andammo ad assistere a una corsa ciclistica lo scorgemmo mentre passava in mezzo alla folla per vendere la sua specialità.
Alberto era un bimbo di origine veneta che aveva sempre la testa fasciata da una garza e che faceva fatica a parlare e a camminare. All'improvviso non lo vedem¬mo più, era morto per un male incurabile.
Gianni Gadoni sorrideva sempre ed era proprio sim¬patico. Quando ci incontravamo lo salutavo con un: "Mannaggia a chi te' muorto!" E lui, emiliano, mi rispondeva: "E a chi te' stramuorto! "
Tutte le volte che da bimbo e da ragazzo tornavo giù in meridione mi prendeva la fissazione di trovare «A grottecella», una mitica grotta che nell'Ottocento dei banditi avevano utilizzato come covo; doveva essere sicuramente nel terreno di mio padre perché la località dove si trovava si chiamava proprio così. Secondo mio padre, che aveva una fantasia ancora più sfrenata della mia, in quella grotta franata all'improvviso dovevano esserci tutte le razzie fatte dai banditi e quindi anche degli immensi tesori. Chiaramente la grotta non l'abbia¬mo mai trovata ma confesso di aver provato a scovarla anche da adulto, munito di apposito metal-detector, anche se non c'è stato niente da fare. Per me è ancora lì in attesa che io la trovi, ne sono sicuro o comunque, mi piace pensarlo.
Dei miei primi anni di vita trascorsi al sud conservo pochi e vaghi ricordi. Ricordo mio fratello Dante che, insieme a un nostro cugino, rubava le noccioline dagli alberi di zio Caporale (fratello del nonno Saverio). Ave¬vano iniziato a chiamarlo così (parliamo dell'Ottocento) perché da piccolo aveva sempre la candela al naso e per pulirsi si passava la manica sul naso lasciandoci impressi «i gradi».
Ricordo papà che tornava in licenza e teneva in braccio mia sorella più piccola, scatenando la mia gelosia o quando mi portò assieme ai miei fratelli a una festa a San Giovanni, un paese vicino. O ancora mi viene in mente mio fratello Saverio che d'inverno metteva le briciole di pane sotto una tavola di legno, legata con una corda che, quando i poveri passerotti arrivavano, lascia¬va andare in modo da catturarli. Rammento anche che uccidevano il maiale e che noi piccolini piangevamo quando l'animale urlava per il dolore; poi però si faceva una grande festa mangiando la sua carne. Mi viene in mente ancora quando si festeggiò non ricordo quale occasione a casa di zia Arcangela e io dai troppi dolci che mangiai stetti male e vomitai a lungo.
Anche qui a Bologna a Natale conservammo per lungo tempo le tradizioni di giù: bisognava mangiare sette cose tra cui castagne bollite con alloro e dolci tradizionali del meridione come la zeppola, ossia della pasta lavorata non so in quale modo che veniva immersa nell' olio bollente e poteva essere dolce o salata; quella dolce era ricoperta di zucchero mentre quella salata aveva all'interno un pezzo di acciuga. Molte volte dopo la morte della mamma ho desiderato tornare ad assaggia¬re questa specialità senza mai riuscirci. Un'altra squisi¬tezza era la pastiera che veniva fatta cuocere in una di quelle terrine per ciambelle e poi riempita di carne di ogni tipo.
La sera della vigilia ci mettevamo tutti a tavola e, dopo aver detto una preghiera, iniziavamo la cena che andava avanti per diverse ore; il giorno di Natale invece si giocava a tombola.
Alla scuola del Villaggio facevamo il Presepe; noi bimbi al pomeriggio andavamo a prendere il muschio nei fossi che circondavano la scuola; a ognuno la maestra chiedeva di portare in classe una specialità del paese natio, se ne faceva dire il nome e quali erano gli ingre¬dienti utilizzati.
Il primo giorno dell' anno era proprio speciale; noi ragazzi andavamo a dare il buon anno di porta in porta e riuscivamo a mettere assieme un buon gruzzolo. Soli-tamente ci dividevamo in diversi gruppi formati da due persone, ci spartivamo le zone e per tutta la mattina andavamo su e giù per i pianerottoli dei palazzi fino a quando non ci mancavano le forze. Milò aveva una sorella che probabilmente assaporava già l'imminente arrivo dell'ondata di femminismo che di lì a poco avreb¬be invaso le piazze e si chiedeva perché alle ragazze non fosse concesso di andare di porta in porta a fare gli auguri, e anzi, una loro visita il primo dell' anno portava perfino sfortuna. Una volta si travestì da ragazzino e andò in una zona dove non la conoscevano, a dare il buon anno. Per una parte della mattina le andò bene ma a un certo punto suonò il campanello di un appartamen¬to e ne uscì una signora che la riconobbe e furiosa la inseguì per tutte le scale coprendola di certi improperi da far vergognare. Qui a Bologna infatti c'è la convinzio¬ne che se la prima persona che incontri il primo dell' anno è un maschio avrai un' annata fortunata ma se"disgrazia¬tamente" è una femmina, ci saranno sventure per un anno intero.
La befana era una festa molto sentita, anche perché si trattava di una delle poche occasioni in cui si ricevevano regali; la prima che festeggiai fu al paese natio. Mio fratello Dante chiese a mamma se la befana quella sera ci avrebbe portato qualcosa e, a risposta affermativa, an¬dammo tutti a letto. Dante, Carmine e io aspettavamo con inquietudine l'arrivo di quella donna che portava i regali sopra "no ciuccio" (un asino) e che si diceva fosse vecchia, brutta, "co 'no naso a runcillo" (un attrezzo ricurvo che serve a tagliare la legna) e pure gobba. Pensare che quella brutta vecchia riuscisse ad arrivare fino in camera mentre noi dormivamo non era certo tranquillizzante.
Il grande letto, altissimo, era imbottito di foglie di granoturco e al più piccolo movimento, il rumore causa¬to dalle foglie secche era fortissimo, un crac-crac-crac continuo e fastidioso. Speravo che la befana non pensas¬se che fossi sveglio altrimenti chissà come avrebbe reagi¬to. Intanto era già tarda notte e noi non riuscivamo proprio a prendere sonno quando, all'improvviso, sen¬timmo lentamente aprire la porta e in camera ci fu il silenzio totale. Per la paura non facevano più rumore nemmeno i materassi. Un' ombra scura e indistinta si avvicinò a noi che per lo spavento non respiravamo nemmeno; fatti pochi passi, l'ombra cambiò direzione e puntò verso il comò di fianco al letto. In quella zona la luce che arrivava dall'esterno rendeva tutto più chiaro così che la figura pian piano si fece familiare: era papà che in punta di piedi sollevò il cappello sopra al comò e mise sotto a questo qualcosa. lo ero meravigliato, che c'entrava mio padre con la befana? La mattina dopo ci alzammo e trovammo sotto al cappello tre bellissimi lecca-lecca colorati e dei dolci tipici di Benevento. Mio fratello Dante, che era più grande di me, mi disse di non farne parola con nessuno altrimenti 1'anno dopo non avremmo più avuto doni. A Bologna, i regali per la Befana erano molto belli perché, lo Stato, in quella occasione, faceva dei bei doni ai figli dei propri dipendenti: mi ricordo di un bellissimo monopattino di legno con due ruote e un manubrio alto un metro; tra le due ruote, di circa quindici centimetri di diametro e di colore rosso, c'era un piano dove si appoggiava un piede mentre con l'altro si spingeva per acquistare velocità; mi ricordo che facevo delle gare coi miei amici e mi divertivo tantissimo quando curvavo a piena velocità. Un altro dono che rammento con piacere fu un bellissimo Pinocchio di legno, alto circa mezzo metro con un cappuccio rosso, la giacca verde e quel suo famoso naso.
Appena arrivato a Bologna feci la conoscenza di un bimbo di origine pugliese che sarebbe diventato 1'amico più presente della mia infanzia; le premesse non furono delle migliori infatti appena conosciuti litigammo. Allo¬ra il Villaggio Ina Casa era tutto un cantiere e si trovava¬no dei materiali da costruzione ovunque, così, mentre ci prendevamo a spintoni, finimmo in mezzo a del gesso e tornammo a casa entrambi coperti di bianco. Picciuna - questo era il soprannome del mio nuovo amico - è il personaggio più autentico che abbia mai incontrato nella mia vita. Era nativo di Brindisi ed era il terzo figlio di una famiglia molto numerosa. Il suo vero nome era Giovanni, ma il soprannome gli fu messo quando, una volta che noi ragazzi ci domandavamo uno con l'altro che nome avesse quella cosa delle donne al paese di origine (dopo poco tempo sapevamo tutte le parolacce delle diverse località di provenienza) lui intervenne dicendo che al suo paese si chiamava «picciuna». Ci mettemmo tutti a ridere e da allora Giovanni ha sempre mantenuto quel soprannome. Era nato il mio stesso anno e insieme abbiamo passato infanzia e giovinezza e condiviso tantissime avventure. Aveva una capacità straordinaria di prevedere il tempo: si metteva con le braccia sui fianchi e cominciava a scrutare il cielo; guardava prima a sinistra e poi a destra, girava la testa all'indietro e in avanti. Poi si metteva un minuto in silenzio, con lo sguardo fisso in un punto indefinito del cielo. Noi tutti aspettavamo con ansia il suo verdetto: "Domani piove" diceva e anche se la serata era bellissima, il giorno dopo inevitabilmente pioveva; "Domani sarà nuvoloso" e ci prendeva; oppure c'era una tempesta e lui: "Fra poco smette e viene il sole" e ancora non sbagliava. Mi raccontano che anche adesso, quando sua moglie deve stendere i panni in terrazza, lo consulta. Un' altra sua specialità era quella di farsi cigolare tutte le ossa: prima un dito e poi l'altro, poi un polso e un gomito, e ancora una spalla e un ginocchio e così con tutte le ossa del corpo.
Era un ragazzo veramente candido, una volta ci met¬temmo d'accordo e gli facemmo credere che le linee sul mappamondo esistevano davvero, i meridiani e l'equa¬tore erano solchi profondi dieci metri e larghi cinque. Gli proponemmo di andarli a cercare perché alcuni di questi passavano proprio vicino a Bologna. Quando in seguito lo prendevamo in giro per questo, lui si rifaceva dicendo: "E allora Gavino?" (un bimbo d'origine sarda che abitava accanto a me il cui nonno mi chiamava sempre Caruleddu) "Che ha creduto che bastasse cam¬biare la puntina del giradischi per sentire le canzoni in inglese o francese?"
Una volta, in terza elementare, scommise un chilo di rusticani (che a noi bambini piacevano moltissimo) con Marazzi, figlio di contadini che stava di fronte alla via Emilia; Picciuna si sarebbe dovuto nascondere tutta la mattina dentro l'armadio dell'aula di scuola. Nessuno sapeva niente, nemmeno io, e la maestra quando non lo vide, pensò che fosse scappato. Lo cercarono per diverse ore per tutto il Villaggio e, quando finalmente venne fuori dall' armadio, sembrava avesse fatto la cosa più naturale del mondo.
Quando Picciuna cominciò a lavorare come tappez¬ziere a Casalecchio di Reno gli fecero uno scherzo pesante. Il tappezziere era al pian terreno e per andare in bagno si doveva salire fino al terzo; nel piano di mezzo c'era un artigiano che costruiva bare e la scalinata che collegava i piani era buia e silenziosa. Si misero d'accor¬do tutti, anche il padrone stette allo scherzo, e quando lo videro andare in bagno staccarono l'interruttore genera¬le della luce. Rimase al buio più assoluto e dovette scendere a tastoni toccando tutte quelle bare. Ci diceva che l'artigiano costruttore di bare, per riposarsi nell'in¬tervallo di mezzogiorno si sdraiava dentro a una di queste e addirittura se n'era fatta una su misura che teneva bella e pronta sotto il letto di casa sostenendo che: "Tant ave m da murir tot."
Quando eravamo già adolescenti per un certo tempo Picciuna frequentò una ragazza che lavorava in una lavanderia dall' altra parte di Bologna. Con le ragazze era strafottente, e quindi, quando proponemmo alla lei in questione di fargli uno scherzo, quella accettò con entu¬siasmo. Avrebbe dovuto dirgli che aveva fatto delle analisi perché non si sentiva molto bene e che dagli accertamenti aveva scoperto di avere la sifilide, una malattia venerea allora molto grave. Peppino, un ragaz¬zo nativo della provincia di Benevento, di Montesarchio per l'esattezza (quando mamma s'arrabbiava diceva sem¬pre: "Mannaggia a Montesarchio con tutte e pignatte!" perché il paese era famoso per queste, appunto), Peppino e io, dicevo, assistemmo ridendo al colloquio di Picciuna con questa ragazza e vedemmo che, man mano che la conversazione procedeva, lui diventava sempre più se-rio. Poi ci dirigemmo tutti verso casa e facendo finta di non sapere il motivo del suo malumore, gli chiedemmo una spiegazione che dopo lunghe insistenze ci fu data; iniziò con: "Quella stronza ... " e poi ci raccontò tutto. Lo scherzo si fece ancora più pesante quando coinvolgem¬mo Umberto, il ragazzo di mia sorella Teresa, che sareb¬be diventato in seguito mio cognato. Picciuna lo cono¬sceva vagamente, così Peppino e io gli potemmo dire che era uno studente di medicina e che forse l'avrebbe potuto aiutare, naturalmente senza dire niente alla fami¬glia. Nel frattempo Picciuna aveva sfogliato la solita enciclopedia medica che consultava al minimo disturbo e già cominciava ad accusare tutti i sintomi che portava questa terribile malattia (la "vittima" infatti era un po' patofoba). Mio cognato lo chiamò in disparte e con fare serio e professionale, da vero medico, si fece descrivere tutti i malesseri che sentiva e gli diagnosticò senza ombra di dubbio la sifilide; gli disse comunque che una maniera efficace per combatterla era quella di bere molto e che se si fosse attenuto a questo, in una quindicina di giorni sarebbe guarito. Dopo alcuni giorni passati a bere e a pisciare decidemmo di dirgli la verità, ma lui non se la prese molto e dopo qualche "stronzo" distribuito equa-mente tra me, Peppino e Umberto (che credeva un ragazzo serio) ci rise sopra. È proprio vero comunque il detto che recita:«Chi la fa l'aspetti».
Alcuni anni dopo, in un periodo in cui avevo una pesante acne, andai con mia madre, mia sorella e mio cognato Umberto, in vacanza a Cesine. In provincia di Benevento c'era un mago molto rinomato che faceva delle guarigioni prodigiose e dei filtri d'amore: non ne ricordo il motivo, ma ci recammo da quest'uomo. Il posto era proprio come quelli che si vedono nei film e si leggono sui libri; il mago stava in un paese vecchio e abitava in una casa in cima a una gradinata che non finiva più. Dentro l'abitazione c'erano dei corvi e dei gufi imbalsamati, delle strane bottiglie con dei liquidi dentro, dei libri di astrologia da tutte le parti, insomma il classico scenario per far inquietare la gente. Sta di fatto che, quando le donne finirono di consultarsi - non so cosa avessero fatto e non me ne importava niente perché comunque io a quelle cose non credevo - all'improvviso mia madre mi tirò su la maglia e fece vedere al mago la mia schiena e questo, con fare esperto, mi diagnosticò senza esitazione una sifilide. lo non ci volevo credere ma tornando verso Cesine la paura cominciò a impadronirsi di me. Mio cognato si divertiva molto e, quando per la strada gli chiesi un suo parere, mi disse che lui a quel mago credeva perché aveva usato delle parole molto precise e inoltre gli sembrava esperto in medicina. Mia madre mi disse che dopo pochi giorni saremmo tornati a Bologna e mi avrebbe fatto visitare da uno specialista. Ma io, dopo un po' di tempo passato nell' angoscia anche per quanto mi aveva fatto leggere sull' enciclopedia Picciuna quando gli facemmo lo scherzo, decisi di anda¬re da un medico di San Giorgio del Sannio che, ascoltan¬do il mio racconto, si mise a ridere e mi tranquillizzò dicendo che il mio era un normale sfogo di gioventù.
La prima volta che sentii la parola «maruchèin» fu verso i nove anni: la pronunciò un bambino che sarebbe poi diventato un mio grande amico, Ermenegildo, per noi Cioppi. Era un forestiero perché era appena arrivato in città dalla campagna vicino a Crevalcore; non ricordo i motivi che gli fecero pronunciare quella parola, ma il mio amico Picciuna, sentendola, cominciò a picchiettar¬lo con leggere ma continue manate sulla nuca e gli disse: "Noi abbiamo due braccia e tu due braccia, due occhi e tu due occhi" e intanto continuava con la solita operazio¬ne di picchiettaggio: "Noi una bocca e tu una bocca" e così fino a quando disse: "Noi abbiamo un culo e tu un culo." Cioppi, sentendo ciò, cominciò a ridere di gusto e da allora diventò un nostro grande amico. Ogni tanto lo vedo ancora, anche se non ci frequentiamo perché abita a poche centinaia di metri da casa mia.
Una volta Picciuna si ammalò di un pneumotorace e dovette essere operato; consultammo insieme l'enciclo-pedia medica sull'intervento che avrebbe dovuto fare: si chiamava decorticazione pleurica. Man mano che legge¬vo ad alta voce e Picciuna ascoltava, il mio tono si faceva sempre più serio e preoccupato. Si trattava dell'asporta¬zione di un polmone che doveva essere posto in una specie di macchinario e operato chirurgicamente e che poi, non so come, veniva risistemato al suo posto. Il volto del mio amico diventava sempre più bianco, sembrava un lenzuolo appena uscito dalla lavatrice. lo cercavo di rincuorarlo dicendogli che senz' altro quell' operazione non era quella che doveva fare lui, anche se in cuor mio ero davvero preoccupato. Per fortuna l'intervento si rivelò molto più semplice e meno pericoloso e tutto andò per il meglio. Picciuna aveva una voce molto bella e cantava veramente bene anche se, quando lo faceva in inglese, sembrava un pescatore siciliano. Nella sua fami¬glia erano tutti portati per la musica e il fratello più grande, Antonio, il cui nome d'arte era Toni Clan, suonava il basso in un complesso del Villaggio, i Black Kings. Con suo fratello Raffaele, assieme a Franchino e Peppino, Picciuna aveva fondato un complesso, i Thugs, dal nome di una setta di strangolatori indiani, e, qualche volta, facevano anche delle serate. Quando Picciuna cantava, la gente si fermava ad ascoltarlo, ma bastava che qualcuno di noi fosse tra il pubblico e ridesse, che lui cominciava prima a sorridere e poi ad allungare una mano come per dire: «Che stronzo, perché ti metti a ridere?». Poi, anche lui scoppiava a sghignazzare tra la perplessità dei presenti che non ne capivano il motivo. Una volta i Thugs ebbero la possibilità di suonare in una sala da ballo che si chiamava Ubersetto ed era nel centro di Bologna. Avevano preparato tutto accurata¬mente e il pubblico era numeroso. Salirono sul palco in preda all' emozione e cominciarono a suonare: Peppino, il batterista, iniziò a dare il tempo con le bacchette, le alzò e poi uno, due, tre, fece un movimento brusco e sparì, assieme allo sgabello su cui era a sedere, dietro le tende rosse del palco. La gente si mise a ridere fragoro¬samente, ma lui si alzò, si rimise in posizione e via, uno, due, tre e con la bacchetta si impigliò in un filo che penzolava davanti a lui - intanto la gente rideva sempre più forte. Ancora uno, due e tre, e finalmente iniziarono a suonare fino a che, un istante più tardi si ruppe una corda del basso di Raffaele e ci vollero cinque minuti di pausa per ripararla; intanto il gestore del locale aveva cominciato a innervosirsi. Ripartirono e, senza riuscire a terminare neppure la prima canzone, dalla chitarra elet¬trica di Franchino prese a uscire un suono talmente fastidioso e stridulo che la gente prese a tapparsi le orecchie. Franchino spense la chitarra e provò a rimedia¬re, poi la riaccese, ma il suono era diventato ancora più stridulo di prima. All'improvviso, senza neppure avver¬tirli, il gestore attaccò il giradischi e invitò i miei amici a scendere dal palco. Arrabbiatissimi aspettarono la fine della serata per smontare tutto. Ghiro, salì sulla scala per staccare 1'amplificatore di Peppino dal muro, ma questo gli scivolò dalle mani e gli cadde a terra; Peppino, furente, prese la scala e, sempre brontolando, con passo deciso salì, prese l'altro amplificatore a due mani, fece per scendere ma si fermò impietrito: non aveva altre mani di scorta per attaccarsi alla scala e, dovendo sceglie¬re se cadere lui o far cadere 1'amplificatore, scelse que-st'ultimo. Quella serata, ripensandoci dopo aver smalti-to la rabbia per l'impressionante serie di sfighe, fu una delle più divertenti di tutta la nostra giovinezza.
Quando Picciuna parlava, per dare forza alle parole, cominciava a darti dei colpetti sulla nuca e continuava fino a quando non aveva finito di esporre quello che aveva da dire: quante pacche mi sono preso sul collo!
Per un periodo, sempre da giovani, Picciuna uscì con una ragazza che prima di fargli qualsiasi concessione, desiderava sentirsi dire da lui che l'amava. Picciuna non voleva, era in imbarazzo, ma quando dopo tante insistenze le sussurrò il fatidico: "Ti amo" e intanto dentro di sé pensò: «Merda», gli sembrava di essere un attore del cinema che stava recitando in un film strappalacrime.
Era un po' invidioso e faceva di tutto per farmi lasciare le ragazze o portarmele via: una volta era grassa, un' altra era magra, l'altra volta aveva un caratteraccio o i denti gialli. Quando poi non mi convinceva, comincia¬va a screditarmi agli occhi della lei di turno, e diceva che ero pelle ossa, uno stronzo, vestito male, eccetera. Lui era un ragazzo moderno e sui diciotto anni era un figlio dei fiori ma, tempo dopo, essendosi innamorato di una ragazza di Brindisi che aveva conosciuto quando era andato a trovare i parenti al nord, non esitò a ricorrere alla classica «Sin de scinduta» (scappare assieme per una notte per poi potersi sposare) per averla subito vicina, e, come usava dalle sue parti, dopo poco tempo si sposaro¬no. Di lui conservo un ricordo bellissimo e spesso mi viene voglia di vederlo, ma poi penso che con tutto quello che avrebbe da raccontarmi mi picchietterebbe la testa per delle ore e allora ci rinuncio.
Un giorno, avrò avuto circa sette anni, Picciuna, Raffaele e io vedemmo cadere dalle cime di un albero un passerotto; il primo di noi che riuscì ad afferrarlo fu Raffaele che se lo portò di corsa a casa. lo non mi rassegnavo e lo volevo a tutti i costi così andai a casa del mio amico e cominciai a piangere urlando che l'uccellino era mio, almeno questo è quello che mi diceva la mamma dei due fratelli tutte le volte che sorridendo lo ricordava; a forza di sentirmi strillare e per togliermi dai piedi convinse i miei amici a darmi il passerotto ma poi, come tutti i bambini, mi stancai presto di giocarci e lo vendetti al mio amico Vincenzo per venti lire.
Tutte le sere nella cantina di Picciuna e Raffaele tre o quattro gatti si davano appuntamento passando attra¬verso le inferriate larghe che portavano allo scivolo esterno. A Raffaele davano particolarmente fastidio; quando alla sera andava a depositare la bicicletta se li trovava sempre davanti e, per spaventarli, faceva loro dei versi ma questi scappavano tutti tranne uno che non lo guardava nemmeno. Raffaele non si azzardava ad avvi¬cinarlo perché si trattava di un gatto grosso e nero a macchie bianche e dall'aspetto poco raccomandabile. Tutti questi felini non davano fastidio agli inquilini del palazzo e anzi qualcuno portava loro anche da mangiare. Una sera Raffaele mi chiamò dicendomi che dovevamo farli sloggiare definitivamente. C'era quel gatto strafot¬tente che lo innervosiva parecchio perché non lo consi¬derava proprio e quindi si meritava una bella lezione. Andammo nell' atrio e, appena arrivati, come al solito gli altri gatti scapparono ma quello nero e bianco continuò a stare sdraiato per terra come neanche ci fossimo. Per impedirgli qualsiasi via di fuga chiudemmo la porta dell' atrio e io mi appostai davanti alle inferriate con un bastone per impedirgli di scappare. "Adesso a noi!" disse Raffaele, anche lui munito di un bastone. Si avvici¬nò minaccioso verso il micione ma questo improvvisa¬mente si ingobbì, si gonfiò tutto, tanto che sembrava diventato una pantera e cominciò a soffiare. Raffaele, seppur terrorizzato, provò a colpirlo e il gatto cominciò a correre da tutte le parti, faceva dei salti che arrivavano a un metro d'altezza, saltava sulle pareti e rimbalzava tanto velocemente che non sapevamo più da che parte guardare. Allora Raffaele corse vicino a me e il gatto si fermò proprio dinnanzi alla porta: involontariamente (o no?) ci aveva chiuso ogni via di fuga. Lui intanto non si mosse e ci fissò tutto ingobbito e gonfio e noi, terroriz¬zati, non ci muovemmo di un millimetro. Per cinque minuti rimanemmo così, immobili e in silenzio ma, a un certo punto, tentammo di farlo spostare urlando tutte e due assieme e muovendo freneticamente i bastoni. Il gatto - sempre travestito da pantera - si spostò di un metro così noi corremmo verso la porta e riuscimmo a guadagnare la fuga. Le prime sere dopo quell'esperien¬za, quando Raffaele andava a portare la bicicletta in cantina lo accompagnavamo in tre o quattro ma di gatti non ce n'era più neanche l'ombra. Dopo una settimana, quando tutto sembrava tranquillo, una sera mentre Raffaele appoggiava la solita bicicletta, il gattone nero e bianco gli tese un agguato e cercò di saltargli in testa dal piano dell'inferriata a circa un metro da terra; il mio amico fece appena in tempo a scansarsi e a scappare via. Quando raccontò il fatto a casa, i suoi genitori si decisero a far mettere una protezione che impedisse ai gatti di entrare. Anche adesso, quando vedo qualche gatto, cerco di stargli alla larga affinché non mi faccia la posta come il terribile gatto nero a macchie bianche. Un'altra volta assistemmo a una scena che ci lasciò a bocca aperta. Ci trovavamo ai bordi di un fosso ricolmo d'acqua a causa della pioggia che si era abbattuta sulla città per tanti giorni; guardavamo tutta quell' acqua scendere e gli oggetti che si portava dietro quando, a un tratto, scorgemmo un piccolo gattino di soli pochi mesi trascinato dalla corrente. Ci passò di fianco e lo sentim¬mo chiaramente (e per più di una volta) chiamare dispe¬rato la mamma. Raffaele e io ci guardammo in faccia stupiti: non capitava tutti i giorni di sentir parlare un animale. La corrente lo trascinò via e provammo a seguirlo per un po' poi, all'improvviso, non lo vedemmo più: era già scomparso sott’acqua.
Raul l'avevamo conosciuto quando il piccolo circo arrivò al Villaggio perché era il figlio del domatore; era un ragazzo magro e molto esuberante e anche se aveva solo dieci anni non aveva paura di niente. Si occupava di dar da mangiare agli animali; avevano un leone e una leonessa, due cavalli, una coppia di orsi, un elefante e una scimmia. Quest'ultima era molto buffa e quando Raul le prendeva la mano e camminavano, ciondolava in continuazione, sembrava un bimbo che aveva appena imparato a reggersi in piedi. La piccola tenda del circo conteneva solo un centinaio di persone e quella sera noi bimbi del Villaggio andammo tutti a vedere lo spettaco¬lo. Mio padre stranamente mi aveva dato i soldi senza la buona parola della mamma: l'ingresso costava circa trecento lire. Ricordo che ridemmo tutti quando uno dei pagliacci diede le sberle all' altro; Cioppi poi, non smet¬teva mai di sghignazzare, a lui queste cose lo facevano impazzire, rideva anche quando non facevano proprio niente. La sorella di Raul era molto graziosa ed era incantevole vederla fare le acrobazie sui due cavalli; c'erano anche i trapezisti e mi venne il batticuore quando uno di loro lasciò la sua asta e con un'incredibile salto andò ad afferrare l'altra. A me impressionò soprattutto un personaggio che con i denti riuscì a sollevare una sedia con sopra una persona, tra l'altro molto robusta, e sempre con i denti strappò in due un mazzo di carte intero. La sera dopo andammo a trovare Raul ed era già buio quando arrivammo all' accampamento; appena den¬tro sentimmo tanti sguardi puntati su di noi; erano quelli degli animali, e anche se i leoni stavano chiusi in gabbia non ci sentivamo per niente tranquilli. Aspettammo qual¬che minuto poi, visto che non arrivava nessuno, ritor¬nammo a casa. La mattina dopo andammo con Raul a fare una passeggiata nella campagna vicina; gli dicemmo che lui era fortunato, che ci sembrava il bambino più felice del mondo, non andava a scuola e visitava sempre posti nuovi. Ma il suo viso si fece serio e ci rispose che la loro vita era dura e piena di sacrifici; soprattutto l’inverno soffrivano un freddo terribile e quando il tempo era brutto non riuscivano a incassare abbastanza e face-vano fatica anche a comprare da mangiare agli animali. Dopo pochi giorni partì con la promessa che ci saremmo rivisti l'anno seguente ma purtroppo non ritornò più.
I giochi che facevamo noi ragazzi del Villaggio erano tanti. C'erano le piste segnate per terra con il gesso ad esempio: usavamo i coperchietti di metallo che chiude¬vano le bottiglie di birra; dentro la pista mettevamo delle boccette di vetro che avevano all'interno una goccia colorata; il mezzo di propulsione era il «cricco» (pollice e indice uniti e aperti con la massima forza e precisione contro l'oggetto da colpire) si colpiva il tappo o la boccetta di vetro; se andavi fuori pista ti fermavi, altri¬menti proseguivi e naturalmente vinceva chi arrivava per primo al traguardo.
Un altro gioco era il picchio: si trattava di un pezzo di legno di circa due centimetri di diametro e lungo circa quindici, smussato sui due lati, che si posava a terra; si toccava piano con un bastone lungo circa un metro in modo che si sollevasse da terra poi, si colpiva violente¬mente con il bastone lungo; vinceva chi scagliava il picchio il più lontano possibile. Spesso il gioco si conclu¬deva con una fuga generale perché colpivamo i vetri delle finestre.
Poi, c'era il zaccagno che normalmente si faceva a squadre: si trattava di un pezzo di mattone alto circa dieci centimetri, a forma di piramide tronca, sopra al quale venivano messi soldi spiccioli o figurine e quindi, con un sasso - solitamente di quelli piatti che si trovava¬no sulle sponde dei fiumi - si cercava di far cadere i soldi avvicinandosi il più possibile; vinceva la posta chi si avvicinava di più. Una volta mio fratello Dante e un altro ragazzo di nome Gianni stavano giocando a zaccagno e io, per scappare da uno che mi voleva bagnare con uno spinel¬lo, fui colpito violentemente in fronte, appena sopra 1'attaccatura dei capelli, dalla pietra che mio fratello aveva appena lanciato; il sangue cominciò a uscire copio¬so e la testa mi girò vorticosamente così che mi portaro¬no a casa. Quando mio fratello Antonio, che era venuto in licenza, mi vide mi portò subito al pronto soccorso di Borgo Panigale dove mi diedero diversi punti in testa. Mamma si spaventò molto perché disse che si vedeva l'osso; di quella circostanza conservo ancora una cicatri¬ce piuttosto larga, per fortuna ho ancora i capelli e quindi non si nota.
Ad ogni modo ancora oggi non so se tutti questi giochi avevano origine bolognese o erano d'importazione.
Carmine, il quarto fratello, è un po' speciale; da piccolo, in tempo di guerra, fu colpito dalla meningite. Ci fu un'epidemia e lui fu l'unico a salvarsi ma il suo cervello si è fermato a quell' età. Ha una sua lingua che è un misto tra meridionale e bolognese. I suoi occhi sono di un azzurro incredibile e il suo fisico imponente. Mi ricordo che i ragazzi del Villaggio lo prendevano in giro da lontano; avevano paura della sua forza e dicevano: "Carmine gnaru gnaru, Carmine gnaru gnaru", una specie di cantilena senza significato; lui prendeva un sasso e lo scagliava con una forza e una precisione tali che sarebbero stati guai se avesse colpito qualcuno. Una volta, sempre per le solite prese in giro, ne tirò uno contro un gruppo di ragazzi che fecero in tempo a ripararsi, ma il sasso andò a scagliarsi contro il povero ginocchio del signor Mosito che passava di lì per caso e che dopo quella botta zoppicò per diverso tempo ma non fece niente contro Carmine. Gli volevano tutti bene perché lo vedevano buono, dolce e indifeso; reagiva male solo quando si prendevano gioco di lui. Andava sempre a dare una mano a un fruttivendolo del posto, il signor Mezzini, che gli voleva bene come a un figlio; passava tutto il tempo in bottega con lui e muoveva le cassette della frutta, le scaricava e le caricava sul furgone. Una volta Carmine si perse e per tanti giorni non lo trovammo; molta gente del Villaggio ci aiutò a cercarlo. I miei genitori erano disperati ma fortunatamente i carabinieri lo rintracciarono dopo qualche giorno a Castelfranco, una località del modenese distante circa quindici chilometri dal Villaggio.
Carmine è sempre stato in compagnia di papà e mamma; e anche dopo la morte di nostra madre, mio padre lo portava sempre con lui nei suoi continui spostamenti tra Bologna e il meridione e Carmine era felicissimo perché amava il sud profondamente. Dopo pochi giorni di permanenza a Bologna voleva ripartire; laggiù mio fratello si sentiva libero, spesso era in mezzo ai campi, gli piaceva raccogliere la frutta e dare una mano a potare, sentiva la proprietà come sua.
Da quando è morto papà, Carmine è potuto ritornare raramente in meridione perché noi parenti abbiamo poco tempo a disposizione. Quando poi dovremo ven¬dere la casa e la terra per dividere l'eredità, so già che per lui sarà un gran dispiacere; anche a molti di noi piacereb¬be tenere tutto ma non è possibile, tra figli e nipoti siamo più di una trentina e mettere d'accordo tante persone è un'impresa difficile.
Noi ragazzi andavamo spesso in via di Mezzo e ci fermavamo presso due enormi cipressi posti all'ingresso di una piccola strada bianca che portava a una casa. Per arrivarci adesso, tra svincoli, tangenziale, strade e superstrade, occorre arrivare fino a Modena e tornare indietro. Una sera - eravamo in una decina e parlavamo delle solite cose - a Bruno venne la malaugurata idea di dire: "Vediamo chi ce l'ha più grande?" Noi maschi, di qualsiasi età, siamo molto sensibili a questo argomento; abbiamo tutti paura di essere meno dotati degli altri e quindi siamo restii a mostrare i nostri attributi. Ci siamo guardati in faccia l'un l'altro, aspettando che qualcuno più coraggioso dicesse che non era il caso, ma nessuno fiatò; tutti pensavamo che chi avesse parlato avrebbe fatto la figura di quello con la fifa di non reggere il confronto. Bruno poi, che aveva fatto la proposta, sicu¬ramente credeva di essere "messo meglio" di tutti; lo fece vedere per primo e, con un sospiro di sollievo mio e di tutti gli altri che probabilmente avevano avuto lo stesso pensiero, constatai che le dimensioni erano più o meno uguali alle mie. Toccò al secondo, e ancora un altro sospiro di sollievo e così via per tutti gli altri; quando fu il mio turno ero abbastanza tranquillo, avevo appurato che rientravo perfettamente nella media. Per ultimo toccò a Rossano e quando vedemmo il suo, rimanemmo tutti di sasso, era per lo meno il doppio del nostro, una cosa mostruosa. lo lo guardavo stupito, spesso pisciava¬mo assieme e qualche sbirciatina per far confronti ce l'avevo data, ma mi era sembrato sempre di dimensioni normali. Va be' che io avevo dodici anni e lui qualcosa di più, ma uno sviluppo tale in così poco tempo era incre¬dibile! Poi ho avuto l'illuminazione, avevo capito tutto: mentre noi aspettavano il nostro turno, ricordo che lui teneva le mani in tasca; probabilmente, per paura di fare brutta figura, aveva agito su se stesso fino a raggiungere quelle dimensioni che ci avevano lasciato di stucco, nonostante, come dicono i vecchi bolognesi: «Al guerda par tera».
Quella sera non gli dissi nulla, non volevo sembrare invidioso, mentre lui gongolante per l'ottima figura, si riallacciava i pantaloni. A Raffaele e a me capitavano spesso delle cose strane. Un giorno, in una delle nostre solite escursioni nelle campagne intorno al Villaggio, vicino a Sacerno, una contrada tra la via Emilia e la via Porrettana, ai bordi della strada vedemmo un bellissimo albero di prugne con dei frutti maturi e invitanti. Ci guardammo intorno e, non vedendo nessuno, decidemmo di prendere qual¬che frutto; appoggiammo la bicicletta pronti alla fuga se fosse arrivato il contadino e Raffaele, più grande di me, si arrampicò sull' albero. Stava per cogliere le prugne quando all'improvviso saltò giù precipitosamente e ini¬ziò a sputare a terra: con la faccia disgustata mi disse che sulla cima si era trovato di fronte un grosso rospo che, spaventato, gli aveva sputato in faccia colpendolo pro¬prio in bocca. Ci siamo precipitati subito a casa pensan¬do alle possibili conseguenze di quello sputo; avevamo sentito dire che era velenoso, che poteva paralizzare una persona. Durante il tragitto non perdevo d'occhio ogni suo movimento, controllavo se cominciava a sentirsi male, se manifestava tremolii strani; poi quando vidi che stava bene mi tranquillizzai.
Un'altra volta andammo a fare un giro a Borgo Panigale, quando, a metà di via Biancolelli, ci attraversò la strada un gatto nero. Raffaele, abbastanza superstizio¬so, lo interpretò come un segno negativo e voleva tornare a casa, ma io lo convinsi ad andare avanti; facemmo altri cinquecento metri e ci imbattemmo in un corteo funebre, così che Raffaele propose di cambiare strada - per quel giorno il gatto nero gli era già bastato - ma io sorrisi dicendogli che erano tutte fesserie; continuammo e ci recammo a trovare degli amici di suo fratello che aveva¬no aperto un' officina.
Questi, quando lo videro, cominciarono a parlare male di suo fratello - non ricordo cosa avesse combinato - e Raffaele, sentendo tutte quelle offese, cercò di difen¬derlo rispondendo per le rime. Approfittandosi della maggiore età uno di loro gli mollò un cazzotto in bocca ma prima che Raffaele potesse reagire, lo portai via e ci avviammo verso casa. Mentre tornavamo indietro si teneva il labbro e stava zitto, io gli parlavo e lui non mi rispondeva nemmeno, credo che l'avesse con me perché non avevo creduto a tutti quei segnali premonitori.
Villa Rotta è in campagna, alla sinistra della via Emilia, se si viene da Bologna. È una villa diroccata del Settecen¬to e il suo vero nome non l'ho mai saputo. Davanti all'ingresso c'erano delle colonne ancora in piedi e, entrando dalla porta principale, c'era un salone dove si trovavano dei cumuli di macerie. Il soffitto esisteva solo per metà e attraverso la parte rimasta scoperta si vedeva il cielo; nella porzione ancora integra invece, c'erano una Madonna dipinta e degli angioletti, di quelli paffuti con le ali bianche che ti sorridono. C'erano anche degli stucchi che decoravano il centro della sala e alcune macerie che ostacolavano l'ingresso nelle altre stanze. La cosa che ci affascinava di più erano i sotterranei che si trovavano al centro del perimetro della costruzione. La villa era circondata da alte mura e di fronte ad essa c'era una piccola casetta che doveva essere stata quella della servitù. Dopo le prime visite, abbastanza timorosi, deci¬demmo di andare a esplorare i sotterranei. Partimmo in quattro: Picciuna, Raffaele, Peppino e io. Appena arri¬vati togliemmo le macerie che ostruivano il passaggio; c'erano da fare una decina di gradini e mentre scendeva¬mo la paura cominciò a farsi sentire poiché, come tutti i luoghi abbandonati, sulla villa erano state raccontate diverse leggende: si parlava dello spirito della padrona di casa che ogni tanto si faceva vedere per far scappare gli intrusi, di fantasmi bianchi che apparivano al chiaro di luna, di bimbi che piangevano non si sa perché. Sta di fatto che la paura aumentava proporzionalmente ai gradini e, fatto l'ultimo, ci trovammo in una stanzona sprofondata nel buio e piena di cianfrusaglie; c'erano anche piatti e vasi rotti, probabilmente buttati dagli antichi abitanti del posto. Andammo più avanti e vedem¬mo altri cinque gradini che percorremmo sempre più titubanti; ora eravamo in una grande stanza circolare completamente vuota, con pareti di mattone lisce come specchi per l'umidità e la muffa; guardando verso 1'alto si intravedeva una luce fioca provenire dall'esterno at¬traverso un foro circolare chiuso da inferriate, che da fuori non si vedevano perché coperte da arbusti, erbacce e terriccio. Praticamente nella stanza non c'era niente, ma fummo interessati dal pavimento in terra battuta che avrebbe potuto nascondere qualcosa (un tesoro?). Deci¬demmo di andare a casa e tornare il giorno dopo meglio attrezzati. Il pomeriggio seguente ritornammo alla villa con pala e piccone che avevo preso dal sottoscala del palazzo dove abitavo (gli attrezzi erano di uso comune nei condomini e servivano quando c'erano da fare dei lavori nei prati di fianco a casa o d'inverno per spalare la neve) e anche una torcia che Peppino aveva chiesto in prestito a suo fratello. Rifacemmo il solito percorso con un po' meno paura del giorno prima e quando arrivam¬mo nella stanza circolare ci mettemmo a scavare con un grande entusiasmo che pian piano però si affievolì per¬ché non affiorava niente, neanche un tappo di bottiglia. Più scavavamo, più l'entusiasmo dileguava e dopo circa mezz' ora, delusi, decidemmo di tornare a casa.
Ogni tanto tra noi ragazzi si parlava di Villa Rotta, le leggende a riguardo continuavano ad affascinarci. Quel¬la sera, quando decidemmo di tornare alla villa, venne anche Giuseppe, un ragazzo calabrese di quattro anni più vecchio di noi; c'erano anche Banana, Faina e un altro che chiamavamo Tacchi-tacchi. Era estate e il cielo era stellato; ci sentivamo tutti carichi come delle molle e se avessimo visto un fantasma gli avremmo rubato il lenzuolo, la paura non ci sfiorava minimamente. Con passo sicuro partimmo e imboccammo la via dei campi che ci avrebbero portato alla villa. Il cielo era splendido e già s'intravedeva la sagoma della villa tuttavia, man mano che ci avvicinavamo cominciò a farsi sentire l'in¬quietudine. A pochi metri la paura era ormai inconte¬nibile, ma nessuno di noi aveva il coraggio di confessarlo. Scavalcammo il muro che cingeva la villa, Picciuna e io per ultimi; una volta saltati dentro ci incamminammo tutti in fila indiana verso i sotterranei: Giuseppe, il più grande, era il primo, poi c'era Peppino e subito dopo gli altri in ordine decrescente di coraggio. La tensione era altissima, mai nessuno che conoscessimo si era azzardato a penetrare in quel luogo di notte. Poi, a metà percorso, all'improvviso ci fu una fuga generale, scavalcammo tutti il muro senza bisogno del "piedino" dei compagni e scappammo a rotta di collo fino al Villaggio; mentre correvo sentivo i calcagni dei piedi toccarmi il sedere. Giuseppe - quello che diceva di non aver paura di niente - arrivò per primo e quando ci sentimmo al sicuro, dentro al Villaggio, andammo alla fontanella per lavarci e attenuare il dolore delle sbucciature che ci eravamo procurati scavalcando il muro. Poi ci domandammo l'uno con l'altro: "Tu cosa hai sentito?" "lo niente, e tu?" "Neanch'io niente!" "E allora perché sei scappato?" "Perché ho visto scappare voi!" Insomma, i motivi della fuga da Villa Rotta non li abbiamo mai saputi. La Villa è ancora lì, sulla sinistra della via Emilia, magari un po' più diroccata di allora, affinché i bambini del posto possano continuare a fantasticare.
Nelle giornate più calde della fine degli anni Cinquan¬ta partivamo e andavamo a fare il bagno sotto il Ponte Lungo, quello che collega Borgo Panigale con Bologna e ai cui bordi ha quattro bellissime sirene bianche a seno nudo che allora guardavamo con molto interesse.
Facevamo il bagno appena passato il ponte sulla destra, entro quei massi che affiorano completamente solo d'estate, quando il fiume era in secca. Quei massi erano sistemati l'uno di fianco all' altro fino a formare un cerchio e si diceva fossero stati messi lì dagli Etruschi che, una volta all' anno, celebravano i loro riti purificato¬ri. Noi molto più semplicemente ci andavamo a nuotare, l'acqua del fiume allora era pulita e passavamo degli interi pomeriggi a divertirci così. Quando ci annoiavamo andavamo a prendere i pesci, e quelli, sentendoci arriva¬re, si rifugiavano sotto i sassi. Una volta ci fu una tremenda moria e a migliaia boccheggiavano sulle rive del fiume: fu il primo segnale dell'inquinamento che avremmo dovuto subire negli anni futuri. Eravamo in acqua, in mezzo a questi pesci quando, trascinato dalla corrente, ne vidi arrivare uno di dimensioni enormi, sarà stato lungo almeno un metro; mi avvicinai per acchiap¬parlo quando questo spaventato alzò tutte le creste che aveva a disposizione. Sembrava un drago di quelli infu¬riati e mi allontanai immediatamente, mentre lui, sempre boccheggiante, si lasciava trascinare dalla corrente; più avanti due ragazze coraggiose l'afferrarono e se lo porta¬rono a casa.
Ogni tanto d'estate attraverso il Ponte Lungo non posso fare a meno di guardare in fondo a destra, dove gli Etruschi si riunivano per le loro cerimonie e dove io ho passato indimenticabili pomeriggi estivi.
Nei primi anni Sessanta si raccontava la favola che noi meridionali mettevamo i pesci nella vasca da bagno; devo confessare che, per quanto mi riguarda, alcune volte era vero. Dove lavorava mio padre c'era un laghetto che avevano riempito di pesci chissà quanti anni prima e ogni tanto lui vi si fermava a pescare con una canna rudimentale che si era costruito. Spesso portava a casa del pesce che noi gustavamo golosamente anche se ricordo che per diversi anni mi rifiutai di mangiarlo perché, in uno dei miei frequenti viaggi al paese, ne feci una scorpacciata tale che stetti veramente da cani e per un lungo periodo solo a sentirne l'odore mi veniva la nausea. Mio padre ci parlava di enormi e favolosi pesci, di una razza che non aveva mai visto fino ad allora. Un anno ricordo che ci fu una lunga siccità che durò diversi mesi e il laghetto si era quasi prosciugato; un giorno prese una pertica e si appostò immobile sulla riva dello specchio d'acqua e quando i pesci boccheggianti per la mancanza d'acqua si avvicinavano, dava loro una botta secca tanto da tramortirli e prenderli. Poi, li portò a casa in autobus, coperti con dell' erba bagnata e avvolti in un panno; quando arrivò erano ancora vivi e li mise per alcune ore a spurgare dentro la vasca da bagno; li mangiammo il giorno dopo e quel pesce fu proprio ¬come diceva lui - speciale-. In quegli anni al Villaggio passavano personaggi di ogni tipo come l'arrotino ad esempio che, pedalando una bicicletta apposita, faceva girare una ruota molata e affilava coltelli e forbici fra mille scintille urlando: "Arruten, arruten! " Quando mia madre lo sentiva grida¬re, scendeva in strada e gli portava sempre qualcosa da arrotare. Una volta gli diede un mucchio di oggetti da affilare e l'uomo le disse che sarebbe riuscito a terminare il lavoro soltanto il giorno dopo. Quell'arrotino non lo vedemmo più, non abbiamo mai saputo per qualche motivo non sia mai più potuto tornare o cos'altro.
D'estate, tutti i giorni alle dieci di mattina, passava il «giazarol». Guidava uno di quei furgoni a pedale e quando arrivava cominciava a gridare: "Giaz, giaz!" (ghiaccio, ghiaccio). Aveva circa cinquant'anni e i capelli già tutti bianchi, era piccolo, robusto, sempre sudato e indossava spesso una canottiera bianca. Quando arriva¬va noi bimbi correvamo tutti intorno a lui perché erava¬mo affascinati da quel materiale trasparente a forma di colonna che occupava tutto il furgone; quando c'erano clienti l'uomo scopriva il ghiaccio dai teli che lo avvolge¬vano e lo rompeva, poi tirava fuori la bilancia e lo pesava. Noi bambini stavamo lì ad assistere all' operazione, an¬che perché lui spesso generosamente ci dava un pezzetto di ghiaccio per uno che golosi mettevamo subito in bocca. Poi ricopriva tutto, ripartiva pedalando e fatti pochi metri, ricominciava a gridare: "Giaz, giaz! "
«Al sulfaner» passava almeno due volte alla settimana con il suo carretto a pedale: raccoglieva ferro, stracci, ma anche qualsiasi oggetto che si poteva rivendere. Aveva una grossa mole e una voce veramente potente e quando arrivava gridando si faceva sentire in tutti i palazzi del circondario. Noi lo conoscevamo bene e riuscivamo a strappargli qualche lira in più quando avevamo qualcosa da vendergli. Era un uomo che doveva aver sofferto: dimostrava parecchi anni in più di quelli che aveva, una quarantina circa, ed era sempre di un colorito rosso molto acceso Spesso era su di giri; lo scorgevamo da lontano quan¬do arrivava zigzagando con il suo furgoncino e allora gli chiedevamo: "Ermete coma va?" E lui: "Al va ben incù a i ho ciapè un mocc ed baioch e son andè a bovar un bichire d' vein!" (Oggi è andata bene e sono andato a bere un bicchiere di vino), ma i bicchieri in realtà erano sempre tanti. Altre volte lo vedevamo arrivare con il furgone vuoto e alla solita domanda su come andava rispondeva: "Mel, la zent an caza piò via gninta" (Male, la gente non butta più via niente). Col passare del tempo le sue venute al Villaggio si fecero sempre più rare; il suo lavoro, come quelli dell' arrotino e del venditore di ghiaccio, stavano scomparendo. Agli inizi degli anni Sessanta poi non lo vedemmo più.
Una sera, credo fosse nel giugno del '61, decidemmo di andare a ciliege; per noi era la prima volta, e, in qualità di ragazzi del Villaggio, a quei tempi non potevano non esserci ancora andati.
Eravamo il solito Picciuna, suo fratello Raffaele, Peppino, Faina, Giuseppe Biancomonti, altri due di cui non ricordo il nome e io; Biancomonti era prossimo ai tredici anni ed era enorme: sarà stato alto un metro e settanta per novanta chili di peso e rispetto a me, che ero minuto - per questo mi chiamavano Carletto - sembrava un gigante; portava gli occhiali con una montatura nera e aveva i capelli lisci e il ciuffo. Era molto buono ma se si arrabbiava non capiva più niente. In terza elementare ricordo ancora quando tirò un calamaio pieno di inchio¬stro dietro alla maestra che l'aveva rimproverato per una cosa che non aveva commesso. Solo Cioppi una volta ebbe il coraggio di dirgli qualcosa a proposito del suo peso, una frase del tipo: "Te ciccio sta zet!" - Cioppi parlava sempre in dialetto - e Biancomonti gli corse dietro per tutta la classe e quando lo prese gli mollò una sberla che lo fece cadere per terra. Ma ritornando alle ciliege, quel giorno imboccammo via Cavalieri Ducati e, passata la fabbrica, deviammo a destra, in un sentiero in mezzo ai campi; ci dirigemmo verso quegli alberi che tutti i ragazzi di Borgo Panigale conoscevano. Arrivam¬mo silenziosi a una decina di metri dai sospirati rami quando, all'improvviso, vedemmo un'enorme fiamma-ta, accompagnata da un botto terrificante, partire dalla cima di un ciliegio. Cominciammo a scappare quando, fatti pochi metri, ci fu un altro botto terribile e un fruscio tutto attorno a noi. Vedemmo Giuseppe Biancomonti superare tutti con una velocità tale che, se avessimo avuto il cronometro, avremmo preso un tempo da re¬cord italiano di velocità. Sempre di corsa arrivammo al Villaggio e ci recammo presso la fontanella che era in mezzo al mercatino: diversi di noi erano sanguinanti e pensavamo, dato il bruciore, che il contadino avesse sparato solamente sale; invece, mentre ci lavavamo, vedemmo cadere un pallino da un braccio di Picciuna. Al primo botto Biancomonti si era messo le mani sul fondoschiena per ripararsi (il contadino vedendo il suo sedere così grosso glielo aveva preso di mira) e quelle come il posteriore erano tutte sanguinanti con dei pallini conficcati dappertutto: fu costretto ad andare all' ospe¬dale e il contadino venne giustamente denunciato. Sa¬limmo agli onori della cronaca grazie a un articolo molto spiritoso su Il Resto del Carlino; Biancomonti raccontò al redattore del giornale che ci stavamo recando alla Pallavicini a fare non so quale sport notturno, mentre il contadino dichiarò di aver sparato perché la sera prima dei ragazzi più grandi gli avevano rubato le ciliege e lo avevano minacciato con un bastone. Picciuna conserva ancora sulla testa il ricordo di quella avventura: un pallino che i medici non gli estrassero perché non avreb¬be portato conseguenze. Quella fu la prima e l'ultima volta che andammo a ciliege.
La campagna bolognese è piena di maceri: si tratta di piccoli specchi d'acqua piovana che servivono una volta a macerare la canapa e che i contadini nei periodi di siccità utilizzavano per annaffiare i campi. In una delle nostre solite escursioni Raffaele e io andammo presso uno di questi maceri: era largo circa dieci metri e lungo una ventina. Eravamo sul bordo della riva e a non più di un metro di distanza vidi quello che a me sembrava un piccolo isolotto; già mi immaginavo pirata dei mari del sud nella sua Tortuga e senza pensarci un attimo, ci saltai sopra. Non l'avessi mai fatto, non si trattava di un isolotto, ma bensì d'uno di quegli ammassi di rovi, sterpi e terriccio che il tempo e il vento avevano accumulato; appena ci fui sopra cominciò a muoversi e ad andare verso il largo e io ne fui terrorizzato perché non sapevo ancora nuotare; allora chiesi aiuto a Raffaele che corse immediatamente dal contadino proprietario del fondo. L'uomo arrivò subito: era uno di quei contadini emiliani piccoli e robusti, di quelli che hanno sempre cinquant' an¬ni che non sono mai stati giovani e che non invecchie¬ranno mai. Tu passi di là trent'anni dopo con la pancia e i capelli bianchi e loro, sono sempre uguali. L'abbiglia¬mento era quello tipico: una maglietta di lana bianca a maniche corte, un paio di pantaloni blu, di quelli che i metalmeccanici usano in fabbrica, e uno di quei cappelli di paglia a falda larga che permette di prendere il sole solo dal naso in giù.
Appena mi vide disse: "Ben cinno sa fet le in vatta? Brisa salter zo" (Bimbo cosa fai lì sopra? Non saltare giù) e corse nuovamente verso casa. La riva era a cinque metri e non sarei riuscito a saltare nemmeno se fossi stato il campione del mondo di salto in lungo; nel frattempo mi accorgevo sempre più preoccupato che l'isolotto comin¬ciava ad affondare sotto il mio peso. Tante volte avevo cercato d'imparare a nuotare alla diga sul Lavino o sotto il Ponte Lungo, ma sollevavo tanta di quell' acqua da sembrare un motoscafo: in acqua ero nelle stesse condi¬zioni di un pesce che fuori di essa, con l'occhio fisso e terrorizzato, si contorce e salta disperatamente. Il conta¬dino arrivò dopo pochi minuti con una pertica lunghis¬sima, di quelle che servivano per far crescere dritti gli alberi o per tenere su le viti; intanto mi sembrava che fosse passata un'infinità di tempo. In quei momenti capisci sul serio perché Einstein diceva che il tempo è relativo: come quando aspetti la moglie o la figlia che non arrivano, t'incavoli e dici: "Sono tre ore che ti aspetto!" E l'altra di rimando: "Ma cosa dici sono passati appena cinque minuti!" Ad ogni modo l'uomo mi allungò la pertica, io mi ci attaccai e pian pianino mi trascinò fino a riva insieme all'isolotto.
Il contadino senza tempo, eterno come i campi che coltiva, non si arrabbiò nemmeno, chissà quante ne aveva viste; subito ci portò a casa sua e ci diede un po' di pèsche da portare a casa.
Se passate per le campagne bolognesi fateci caso, guardate bene uno di quei contadini e provate a ripas-sare dopo molto tempo: lo troverete uguale, con gli stessi vestiti e gli stessi anni. Nei mesi autunnali o primaverili, quando pioveva per diversi giorni, i miei amici e io andavamo nelle campagne vicine per prendere i pesci fuoriusciti dai maceri o dai fiumi. Quando l'acqua si ritirava i pesci rimanevano intrappolati nei canaloni e noi, scalzi, con l'acqua che ci arrivava alle ginocchia cominciavamo a catturarli. Una volta ricordo che ne prendemmo così tanti e di dimen-sioni talmente notevoli che li portammo in dono a tantissimi nostri vicini. La tecnica usata era la solita: alcuni si mettevano in un punto e cominciavano a pic-chiare sull' acqua con dei bastoni in modo che i pesci, spaventati, si dirigessero dall' altra parte dove gli altri li catturavano con delle reti.
Luisito era un bambino di undici anni argentino ma di origini italiane, che aveva dei parenti al Villaggio (noi meridionali abbiamo parenti in tutte le parti del mondo, io stesso ne ho in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Argentina dove anche mio nonno Antonio si recò da giovane). Rimase al Villaggio tutta un' estate e diventò nostro compagno di avventure. Ricordo che il suo modo di parlare, con lo stesso accento, l'ho risentito tanti anni dopo, da Maradona. Mi ricordo che rideva, rideva sem¬pre, in qualsiasi situazione si trovasse.
Una volta partimmo in una decina e andammo a pescare in un grosso macero che avevamo scoperto a destra della via Persicetana, all' altezza di Sala Bolognese. Avevamo chiesto al contadino proprietario se potevamo pescare e lui ci aveva dato il permesso. Luisito era l'unico che aveva una canna da pesca col mulinello, i suoi in Argentina stavano molto bene economicamente; ricor¬do che faceva ruotare la canna in aria con parecchia maestria e spesso riusciva a prendere un pesce; non avendo la stessa fortuna, noi ci mettemmo a chiacchiera¬re dietro di lui, a circa una decina di metri. A un certo punto lanciò la canna per aria e io improvvisamente avvertii un piccolo colpo all' altezza dell' occhio e poi sentii tirare; mi alzai in punta di piedi per cercare di sentire meno male e mi resi conto che mi aveva conficca¬to l'amo in una palpebra. Cominciai a urlare e, quando si accorse che la preda ero io, lasciò la canna e venne ad aiutarmi. Per fortuna mi aveva colpito qualche millime¬tro più su dell'occhio e dopo dieci minuti di sofferenze riuscì a togliermi l'amo. Poi, come se nulla fosse accadu¬to, si mise a ridere e, sempre ridendo, tornò a pescare. Fece roteare un'altra volta la canna e all'improvviso sentimmo un'anatra che se ne stava in disparte a nuotare per i fatti suoi, cominciare a starnazzare disperatamente; Luisito cominciò a ridere un'altra volta (veramente non aveva mai smesso) e il contadino, che aveva l'abitazione a poche centinaia di metri, sentendo i versi della poveretta cominciò a correre verso di noi convinto che la volessi¬mo rubare.
Cominciammo tutti a scappare e lui (sempre ridendo) ruppe la bava e con la canna ancora aperta inforcò la bicicletta e ci raggiunse.
Finita l'estate tornò in Argentina e non lo vedemmo più, ma il suo riso perennemente stampato sul volto mi è rimasto impresso nella memoria.
Una sera in tre o quattro andammo a fare un giro dalle parti del gelataio. Eravamo all'altezza dell'asilo nido, all'epoca ancora in costruzione, e vedemmo diversi bambini fuori dal recinto che guardavano in direzione dell' edificio. Incuriositi ci fermammo anche noi e chie¬demmo cosa stessero guardando. Dissero che era già un paio di sere che all'interno dell' asilo si scorgeva una luce fioca accendersi per un po' e poi spegnersi: volevano capire di cosa si trattasse, fantasmi, spiriti o chissà cos'altro. Ci mettemmo anche noi a osservare con la speranza di vedere quella luce. Pian piano si radunarono una cinquantina di ragazzi, tutti volevano assistere a questo fenomeno. Il più contento era il gelataio Mazzoni distante poche decine di metri dalla costruzione, poiché molti nell' attesa andavano a prendere il gelato.
Il tempo passava e alcuni cominciarono ad andare via quando all'improvviso, dai vetri delle finestre, apparve la famosa luce fioca che pian pianino si avvicinò all'usci¬ta: a questo punto ci fu il panico. Nel silenzio più assoluto vedemmo la porta aprirsi lentamente; alcuni ragazzi scapparono, ma la maggioranza rimase per vede¬re di cosa si trattasse; io ricordo che mi nascosi dietro a Francesco che aveva già tredici anni. Piano piano dalla porta si vide uscire un ragazzo che teneva per mano una ragazza e nell' altra una candela; quando i due scorsero tutta quella gente rimasero di stucco; la ragazza intimi¬dita abbassò la testa e insieme si allontanarono senza dire una parola. Probabilmente lui lavorava alla costruzione dell'edificio e ne aveva le chiavi, non sapendo dove appartarsi, aveva pensato bene di andare in quel luogo buio dove nessuno li avrebbe disturbati.
Rossana era una ragazzina bolognese di tredici anni che stava al numero tredici di via del Carroccio. Aveva già il fisico di una donna, nonostante portasse ancora i calzetti bianchi. Era carina coi capelli lunghi e neri, legati a coda di cavallo e gli occhi scuri. Mi ricordo che quell'estate la vedevamo sempre appostata sul muretto che dava sulla strada, assieme a due sue amiche più o meno della stessa età. Verso l'una del pomeriggio era sempre lì, che aspettava di veder passare quel ragazzino di diciassette anni d'origine napoletana di nome Giorgio che abitava di fronte, dall' altra parte della strada. Lui era proprio un bel ragazzo, alto, moro, coi capelli lisci, gli occhi neri e il ciuffo che gli cadeva sulla fronte; indossava sempre una giacca bianca, di quelle che usavano nei negozi, perché faceva il garzone di un salumiere in uno spaccio di Borgo Panigale. Rossana guardava sempre a sinistra, in direzione del punto in cui Giorgio doveva comparire e poi, quando lui le passava di fianco, abbas¬sava gli occhi per poi risollevarli quando si era allonta¬nato. L'amore della ragazza era fatto di sguardi sfuggen¬ti, di attese lunghe e silenziose e di sorrisi complici con le amiche: era puro e semplice come quello di un'adole-scente di quegli anni. Appena passato, lei spariva assie-me alla sue amiche per ricomparire nel pomeriggio quando il ragazzo doveva tornare al lavoro. Tutto questo andò avanti per diverso tempo e una volta i miei amici e io sorridemmo nel vedere che in una delle macchine parcheggiate sulla strada, su un vetro impolverato, era disegnato un cuore con le iniziali della ragazza e di Giorgio.
Poi improvvisamente Giorgio non si vide più e Rossana continuò ad aspettarlo invano nel solito posto; imparam¬mo in seguito che era stato ricoverato all' ospedale e poco tempo dopo venimmo a sapere della sua morte causata da una grave forma di leucemia.
Fino ai diciotto anni non vedemmo mai Rossana uscire con un ragazzo poi, una sera, la scorgemmo mentre scendeva dalla macchina di uno un po' più grande di lei.
La madre di Giorgio raccontava che ogni tanto sulla tomba di suo figlio compariva un fiore e io non ho mai avuto dubbi su chi lo mettesse.
Quando era bambino Mario non usciva mai di casa. Abitavamo nello stesso palazzo e anche lui aveva diversi fratelli e sorelle; la più grande era veramente bella, bionda con gli occhi azzurri, sui ventidue anni; si era lasciata dopo un lungo fidanzamento con un ragazzo che stava al suo paese di origine e cominciava allora a uscire e a frequentare altri ragazzi. Mi accorsi che era incinta quando la pancia era già abbastanza grande ed era impossibile nasconderla. Mario mi disse che si aspettava una reazione violenta da suo padre, sicuramente 1'avreb¬be cacciata di casa; invece venuto a conoscenza del fatto, il padre non disse niente. Si comportava come prima, era solo un po' più silenzioso.
Con Mario era nata una grande amicizia e quando quel pomeriggio, così serio e triste mi chiese di accom-pagnarlo alla Maternità di Bologna per andare a vedere sua sorella che lo stesso giorno aveva partorito una figlia morta, l'accompagnai senza esitazione. La bimba era grande, pallida e con già qualche capello in testa; era stata messa in una stanza, stesa su un tavolo, sopra uno di quei cuscini da neonati. La stavamo osservando quan¬do entrò il padre di Mario; fu una cosa veramente straziante vedere questo vecchio meridionale in silenzio che osservava la sua prima nipote partorita morta da una figlia ancora non sposata.
Ancora adesso ripenso a quella persona, alla violenza che aveva dovuto fare su se stesso per accettare quella situazione e al dispiacere per sua nipote.
Intorno agli undici anni mia sorella, che faceva la parrucchiera in via della Barca da una certa signora Mosca, la quale aveva un pastore tedesco femmina, portò a casa un cucciolo tutto nero il cui padre era un cane da caccia, un setter.
Con Bobi - così lo chiamammo - ebbi subito un rapporto particolare data la mia giovane età; essendo il maschio più piccolo ci giocavo sempre e lo portavo a spasso con me per le campagne intorno al Villaggio. Completato il suo sviluppo Bobi diventò un cane di grossa taglia, tutto nero e con le orecchie basse ereditate da suo padre.
Mia sorella Teresa e io ci giocavamo spesso anche in casa; lei lo afferrava per le zampe anteriori e a suon di musica ci ballava il tango, il cane si metteva con il muso rivolto all'insù e rispettava il tempo come un perfetto ballerino. Altre volte prendevamo della mortadella e la attaccavamo allo stipite della porta e Bobi l'afferrava, contorcendosi per aria per acquistare maggior spinta.
Raffaele e io andavamo spesso in cerca di avventure per le strade di campagna: partivamo con una vecchia bicicletta di mio fratello Severino e naturalmente porta¬vamo con noi Bobi.
Una volta fuori dal centro abitato attaccavamo una fune al suo guinzaglio e lo aizzavamo dicendogli: "Bobi le galline! " e lui, che le adorava - una volta ne aveva fatte secche tre dal contadino di fianco a casa nostra - comin¬ciava a correre così che noi, ci lasciavamo trainare.
Un giorno eravamo in una strada di campagna che non avevamo mai fatto e Bobi come al solito ci tirava allegramente grazie al nostro incitamento quando all' im¬provviso' dietro una siepe molto rada, le galline apparve¬ro davvero; il cane deviò a destra come un fulmine e finimmo nel fosso in mezzo a rovi e alle ortiche mentre lui, agitatissimo, trascinando la bicicletta, abbaiava per poterle andare ad acchiappare. Ci alzammo tutti e due sanguinanti e da quella volta decidemmo di non utiliz¬zarlo più in quel modo.
Per verificarne la fedeltà spesso facevo finta di farmi picchiare da Picciuna e Raffaele ma Bobi invece di difendere il suo padrone dall' aggressore si scagliava contro di me e cercava di mordermi.
Papà gli si era molto affezionato; Bobi lo sentiva arrivare e al ritorno dal lavoro, già dieci minuti prima che apparisse, cominciava ad agitarsi; si faceva aprire la porta della terrazza e scodinzolava fin quando non lo vedeva. Poi andava verso la porta e quando papà arriva¬va in casa gli faceva una festa incredibile.
Il periodo in cui con noi ci fu Bobi fu uno dei più belli della mia vita; il Villaggio proteggeva e rassicurava dal¬l'esterno, eravamo una vera comunità e tutti noi ragazzi, da qualsiasi parte provenissimo, avevamo trovato un linguaggio comune e ci rispettavamo gli uni con gli altri. Per noi più piccoli i dialetti di origine stavano già scomparendo e tutti cominciavamo a parlare con quel¬l'accento tipico di Bologna, con l'esse marcata e sibilante dei locali.
Bobi intanto era diventato molto ingombrante, ma mio padre aveva rifiutato l'offerta del barbiere che lo voleva comprare per addestrarlo alla caccia.
Poi, col passare del tempo, papà si fece convincere da mia sorella Emilia e lo portò al canile, tutto a mia insaputa. Quando appresi la notizia piansi diverse ore chiuso in bagno; iniziai a sognarlo tutte le notti che mi guardava con occhi imploranti, sembrava mi chiedesse di andarlo a prendere. Il suo allontanamento fu per me traumatizzante e ancora adesso quando vedo un cane nero che gli somiglia penso subito a lui.
Con l'allontanamento di Bobi era finita l'infanzia ed era cominciato un periodo per me molto difficile, quello dell' adolescenza.
Parte II
Quella mattina era stata prevista un'eclissi totale di sole e noi ragazzi eravamo stati dispensati dalla scuola per poter assistere al fenomeno da dove meglio desiderava¬mo. I miei amici e io andammo da Marozzi, nel cortile di quella sua casa colonica che sarebbe stata abbattuta per costruire l'Ipercoop.
Arrivammo lì mezz' ora prima dell' ora prevista, tutti muniti di un vetro affumicato come ci era stato consiglia¬to dai maestri. Man mano che cominciavano a calare le tenebre iniziò ad assalirci una grande inquietudine; le galline si rifugiarono tutte in silenzio nel pollaio e il cane lupo cominciò ad abbaiare ininterrottamente. Mi sem¬brava spaventata anche la grande quercia che c'era nell'aia. Pian piano, anche se c'era stato un sole splen¬dente per tutta la mattina, ci fu il buio totale e anche 1'aria diventò più fredda nonostante la bella stagione. L'oscurità durò solo un attimo che a noi sembrò comun¬que eterno; avevamo tutti paura che il sole non sarebbe più apparso malgrado ci avessero assicurato che non sarebbe successo. Ma pian piano, così come era comin¬ciata, l'eclissi scomparve e noi tirammo un sospiro di sollievo. Dopo pochi minuti il sole tornò bello e caldo come prima. Fu un'esperienza affascinante e inquietante allo stesso tempo ma solo quando sei adulto capisci quanto siano straordinari questi avvenimenti e ti rendi conto che capiteranno raramente nell' arco della vita.
Vicino al Villaggio, distante circa un chilometro, c'era e c'è ancora Villa Pallavicini. È una villa splendida con un lungo viale alberato e una bellissima fontana; le stanze interne sono tutte affrescate e si dice che ci abbiano dormito Napoleone e Mozart. Noi ragazzi del Villaggio ci andavamo spesso perché vicino c'era un centro spor¬tivo dove si potevano praticare diversi tipi di sport; io provai a cimentarmi nel calcio ma dovetti rinunciarci subito perché ero alto la metà degli altri.
Un giorno d'estate Raffaele e io partimmo per fare un giro alla villa quando, quasi in fondo al viale, vedemmo un uovo di gallina in mezzo a della paglia (avevano appena tagliato il grano). Curiosi come non mai ci chinammo a prenderlo così che riuscimmo a vederne un altro poco distante e poi un altro, fino ad averne una trentina. Tornammo subito a casa con il malloppo e pensammo a cosa potevamo farcene; scartammo subito l'idea di cucinarci un'enorme frittata perché non riusci¬vamo a capire se le uova erano fresche, quindi decidem¬mo di fare uno scherzo a un ragazzo un po' più grande di noi ma non troppo sveglio. Gli facemmo vedere circa una decina di uova e dicemmo che le avevamo trovate in una siepe vicina a via di Mezzo – dove noi preventivamente ci eravamo premurati di preparare una specie di nido; raccontammo che tutte le notti arrivava uno strano grande uccello che alla mattina ripartiva depositando tutte quelle uova. Questo ragazzo era noto per essere molto credulone; una sera ad esempio, legammo un portafoglio ricolmo di cartacce a della bava e lo lasciam¬mo sulla strada aspettando il suo arrivo; quando lo vide fece 1'atto di prenderlo ma noi lo spostammo e lui invece di chiedersi perché il portafoglio si muovesse, disse: "An do vai, fermati!» Quella volta perciò lo convincemmo abbastanza facilmente ad andare presso la siepe; quando fece buio andammo a sistemare sul terreno dieci uova che la mattina dopo, come avevamo previsto, erano sparite. La stessa cosa la facemmo la sera dopo e anche quella volta le uova scomparvero. Noi intanto ci diverti¬vamo come pazzi, in più s'era sparsa la voce dello scherzo ed eravamo già una decina ad assistere alla scena. Il terzo giorno però lo vedemmo arrivare sul posto col padre che probabilmente si era insospettito per tutte quelle uova che il figlio portava in casa; lo sentimmo che diceva arrabbiato ad alta voce: "Si' proprio cretino!» (era originario delle Campania come me) "Nun t'accorgi che ti stanno facendo fesso?» e poi lo portò a casa. Per tanto tempo girammo alla larga da questo ragazzo che quando ci vedeva faceva la faccia feroce.
Un'altra volta, d'inverno, il ghiaccio aveva coperto tutto quanto; alla Pallavicini i pesci nella fontana non si vedevano nemmeno e come fanno tutti i bimbi (anche mia figlia fece la stessa esperienza) non resistetti alla tentazione di salire sulla superficie ghiacciata della va-sca, feci due passi e il ghiaccio si ruppe. Raffaele, il mio compagno più fedele di quel periodo, mi tirò fuori e mi accompagnò di corsa a casa a cambiarmi i vestiti.
Franceschi era un anziano omosessuale del Villaggio già in pensione; era un bell'uomo dai capelli candidi e dagli occhi azzurri e indossava sempre la tuta da metalmeccanico. Andava in giro con una bicicletta e con un cane lupo nero che gli stava sempre a fianco, abbaiava di rado e non si allontanava mai dal suo padrone. La sua presenza, rara quando eravamo bambini, si fece sempre più frequente man mano che diventavamo ragazzi. Difficilmente si fermava a parlare con noi, ma ci guardava spesso da lontano. Durante le nostre escursio¬ni nella campagna vicina spesso ci appariva di fianco all'improvviso, silenzioso. Le poche volte che si fermava con noi a chiacchierare scherzavamo e lo prendevamo un po' in giro; ricordo che a me diceva sempre: "Te testa grosa sta zet!" La stessa cosa che mia nonna paterna disse riferendosi a mia madre quando la vide per la prima volta.
Un episodio che ancora adesso mi fa ridere quando ci ripenso accadde in una taverna di fianco alla sala da ballo Drago verde; era primavera inoltrata e sugli alberi c'era¬no già i rusticani abbastanza grossi. Eravamo in tre, Picciuna, uno nativo di Bologna che si chiamava Dario e io. Banana, così chiamavamo Dario, era un bel ragaz¬zino e mentre si stava allungando per raccogliere i rusticani, Franceschi gli passò a fianco e disse: "Magna pur i rustican cat cràss la canela! " (mangia pure i rusticani che ti cresce la cannella), una frase che è rimasta memo¬rabile. Un' altra volta ci trovavamo in una decina, tutti sui quattordici anni, in mezzo alla strada all'inizio di via del Carroccio dove si trovava la gelateria di Mazzoni; Franceschi passò con la solita bicicletta e il cane nero e disse un'altra frase che ricordiamo ancora: "Gli usil a branc an fan mai fourtouna!" (gli uccelli in branco non fan mai fortuna).
Una sera in via di Mezzo, una strada che dal Villaggio finisce in mezzo alla campagna, ce lo trovammo improv¬visamente dietro, con il cane e come al solito in bicicletta; c'era una luna lucente in cielo e lui ci passò di fianco, a una velocità abbastanza sostenuta, sfiorando ci appena e poi, senza nemmeno guardarci, scomparve nel buio senza una parola così come era apparso. Morì diversi anni dopo e quando lo venni a sapere, mi dispiacque molto perché era stato un personaggio sim¬patico della mia giovinezza.
Un altro omosessuale mitico veniva chiamato "la Valì"; ne avevamo sentito tanto parlare e quando final-mente un giorno lo vedemmo ci meravigliammo: l'aveva¬mo immaginato strano e invece era una persona qualsia¬si, solo un po' effemminato; si raccontava di scherzi ferocissimi che i ragazzi più grandi gli facevano.
Intorno ai quattordici anni, come tutti i ragazzini, cercavo di sembrare più grande e volevo frequentare il Bar Edera che nel Villaggio si trovava al centro di un palazzo chiamato «treno». Era un locale frequentato da persone di tutte le età, quasi esclusivamente uomini -allora i bar erano evitati accuratamente dalle donne. La barista, che aveva chiamato il bar con il suo nome, faceva entrare tutti, ma quando toccava a me diceva sempre: "Te mezza pugnatta du vut ander'! " (mezza pugnetta» viene usato per riferirsi a uno ancora piccolo, un bimbo), indicandomi la porta, e così accadde per tanto tempo. Mentre gli altri si divertivano io dovevo aspettarli fuori, ma Edera non si commuoveva affatto nel vedermi in attesa e io tornavo a casa sempre arrabbiato.
Una volta mi nascosi dietro agli altri ma non ci fu niente da fare: "Sa fet al furb, mezza pugnatta, va fora!" sembrava che avesse un radar per individuarmi. Non la sopportavo proprio, anche perché infieriva laddove in quel momento ero più vulnerabile; mentre gli altri ave¬vano già raggiunto un'altezza accettabile e avevano dei fisici quasi da adulti, io ero ancora molto piccolino, esile e complessato. Forse non era nemmeno quella la ragione del suo rifiuto; un giorno infatti provammo a chiamare un cinno (bimbo) di dodici anni, Michele, che avrebbe dovuto cercare di entrare al bar con noi e che era alto la metà di me. Quando entrammo mi accolse con la famosa frase (quella che i miei amici mi hanno ricordato fino a quando mi sono sposato) e Michele, che rispetto a me sembrava un nano, passò indisturbato. La signora Edera mi sem-brava San Pietro davanti alla porta del Paradiso che diceva: «Tu puoi entrare, tu no, non puoi», solo che dal Paradiso venivo respinto soltanto io. In quel bar riuscii a metterci piede solo intorno ai sedici anni quando la mia altezza era già di un metro-settantacinque e mezzo.
Finalmente potevo gustarmi il mitico retro del bar dove c'erano i biliardi, i tavoli da gioco e gli adulti che giocavano interminabili partite a carte o a biliardo raccon¬tando di avventure e di donne tra fumo e vino.
A quei tempi cominciava a farsi evidente la differenza tra meridionali e settentrionali; i meridionali avevano un numero maggiore di figli - anche nove come nel mio caso - mentre i bolognesi avevano famiglie meno numerose; e così i figli dei locali potevano vestirsi meglio, mentre noi, che eravamo tanti e avevamo meno possibilità eco¬nomiche, eravamo peggio abbigliati. Recentemente ho saputo che la mia famiglia era la più numerosa del Villaggio.
I miei primi problemi d’inserimento li ho avuti quando ho cominciato a mettere il naso fuori dal Villag¬gio. I miei genitori mi iscrissero alle medie Zanotti, di fianco al Palazzetto dello Sport, vicino a via Lame. La differenza tra me e gli altri ragazzi si cominciava già a notare vistosamente: io vestivo sempre con le solite cose e anche se stavo crescendo, mi dovevo mettere la giacca dell' anno prima. Mi sembrava di essere Charlot: la giacca era corta e le maniche mi arrivavano cinque centimetri più su dei polsi e anche i pantaloni erano diventati cortissimi; ma i miei non avevano nessuna possibilità di comprarmene dei nuovi. Cominciavo a sentirmi triste e depresso perché mi vedevo inferiore e mi accorgevo della mia diversità; pensavo che le ragazze della scuola non mi avrebbero mai guardato e credevo che questo fosse dovuto anche alle mie origini meridionali. In prima media fui promos¬so anche se ho sempre pensato che questo avvenne per l'appendicite che mi colpì verso la fine dell'anno scola¬stico. Probabilmente era stata causata da alcune paste vecchie che un lattaio vicino alla scuola mi aveva vendu¬to la mattina ad un prezzo scontato; dopo poche ore che le avevo mangiate infatti cominciai a sentire un dolorino alla pancia che col passare del tempo diventò sempre più forte. Per farmi passare il dolore alla sera la mamma mi mise anche la borsa dell' acqua calda sulla pancia che però peggiorò la situazione. Soffrivo le pene dell'inferno e alla mattina, dopo tante insistenze di mia sorella Pina che sospettava fosse proprio l'appendicite, mia madre con-vinse papà a portarmi dal dottore il quale mi visitò e mi fece ricoverare d'urgenza. Ricordo che ormai non riusci¬vo più a muovere la gamba e mi dovettero portare in braccio dal quinto piano a terra; poi il signor Mezzini, che aveva già l'automobile, mi accompagnò all' ospedale Maggiore. Quando fui dentro in poche ore mi operaro¬no e i medici dissero che ancora un po' e per me non ci sarebbe stato più niente da fare; passai la Pasqua in ospedale e dopo qualche giorno dall'intervento ebbi anche delle complicazioni: dovettero tagliarmi di nuovo da sveglio perché mi si era formata un'infezione. Tornan¬do alla promozione, quell' anno mi rimandarono in tre materie e a settembre fui promosso. Il professor Mioli, di matematica e geometria - che quando si arrabbiava diceva che gli rompevamo i cilindri - fu molto gentile e ricordo che mi chiese se l'appendice 1'avessero fatta mangiare al gatto.
In seconda media ci fu l'episodio più umiliante di tutta la mia vita, uno di quelli che ti segnano per sempre. In quel periodo alla mattina studiavo e al pomeriggio, per poche lire, facevo il cameriere in un bar del centro di Bologna,l'Illy caffè. Per la stanchezza o per un'influenza, non ricordo bene, stetti a casa pochi giorni e quando tornai una professoressa, credendo di aver fatto una buona azione, mi disse che durante la mia assenza da scuola con l'aiuto dei miei compagni aveva raccolto dei vestiti per me e la mia famiglia. Mi sentii così umiliato che 1'anno dopo decisi di cambiare scuola. Mia madre cercò in tutte le maniere di farmi ravvedere ma non ci riuscì; quello che era successo mi aveva così profondamente scosso che ancora adesso quando ripenso all' accaduto sto male.
Spesso i miei compagni di scuola andavano a prendere il gelato anche se la temperatura era molto bassa e quando a uno di loro, un certo Celesti, dissi che era ancora troppo freddo, rispose che dicevo così poiché il gelato non me lo potevo permettere: "Voialtri marocchini siete dei plumoni!" (poveracci), così disse.
Una volta litigai con un ragazzo della mia classe, ci picchiammo, e quello per giustificarsi disse al Preside che io lo avevo provocato, che avevo simulato un rappor¬to sessuale con lui. lo non sapevo nemmeno cosa signi¬ficasse e per fortuna il capoclasse, un certo Boschi, disse che erano tutte bugie e il preside lasciò perdere.
Ho anche dei ricordi piacevoli delle medie; rammento con affetto la professoressa di educazione artistica che mi permetteva di disegnare in piedi perché mi riusciva meglio e mi faceva i complimenti dicendomi che ero molto bravo e portato per la materia. In futuro quando la passione per l'arte mi prese in maniera travolgente, ricordavo la professoressa e i suoi incoraggiamenti e allora la stanchezza, anche dopo tanto tempo passato a dipingere e a scolpire, non la sentivo più.
Alle sette di una domenica mattina di ottobre, poco tempo fa, sono andato a fare un giro al Villaggio. Da quando ho deciso di scrivere della mia infanzia riaffiorano i ricordi, le emozioni di allora e ho sentito una forte nostalgia per quel posto in cui non abita più nessun nostro parente e dove raramente sono tornato da quan¬do papà e mamma sono morti. Ho ripercorso tutte le strade di una volta e mi sono stupito di quanto sia diventato bello; si è inserito perfettamente nel panorama bolognese coi colori delle sue palazzine di quel giallo ocra, quell' arancio, quel rosso sfumato e quel grigio caldo che caratterizzano la vecchia Bologna. Anche l'architettura è splendida: alcuni scorci di via Norman¬dia sono da cartolina e le terrazze sono abbellite da fiori e gerani che con i loro molteplici colori donano un aspetto delicato alle facciate che sanno di vissuto. Gli alberi che quando ero piccolo erano dei fuscelli sono diventati enormi; sembra che la natura abbia concesso all'uomo un po' di spazio per costruire qualche casa e non che sia stato l'uomo ad edificare per poi rinverdire il posto.
Per strada a quell' ora c'erano pochissime persone ma l'insegna verde del Bar Edera era illuminata. Ho incon¬trato Vincenzino, il figlio del maestro Gini che stava nel mio palazzo, ma sono stato zitto e lui non mi ha riconosciuto. In via Pontida ho visto uscire da un porto¬ne una giovane coppia, lui bianco e lei nera; mi sono chiesto se avessero dei bambini e se questi quando sarebbero stati grandi avrebbero avuto i miei stessi bei ricordi del Villaggio. Chissà se in questo quartiere esiste ancora la tolleranza e il rispetto per gli altri come negli anni Cinquanta. Il Villaggio non è più isolato dal resto della città e gli spazi vuoti si sono riempiti di enormi palazzoni; a confronto, quelli bianchi di via del Carroccio che a me parevano grattacieli, sembrano minuscoli. Dall' altra parte della via Emilia la casa del contadino Marozzi è stata abbattuta e al suo posto (come ho già detto) è sorta l'Ipercoop dove ogni giorno migliaia di persone vanno a fare la spesa. Villa Rotta non si scorge più dal Villaggio. Le zone a nord-est sono circondate da autostrada e tangenziale che non permettono di vedere la ferrovia che collega il nord con il sud; quella ferrovia dalla quale i miei parenti di Benevento, quando col treno passavano vicino a casa mia, salutavano con un fazzolet¬to bianco. Ognuno di loro cercava un avvenire migliore al nord e inconsapevolmente faceva a ritroso il percorso che i nostri antenati Longobardi avevano compiuto millecinquecento anni prima. Al centro del gruppo di case dove sono nato c'è una vecchia quercia che è lì da tempo immemorabile: è curva e piena di acciacchi dovuti al tempo. In lei rivedo i miei genitori che già anziani non hanno esitato un attimo ad abbandonare la loro terra dove conducevano un'esisten¬za modesta ma dignitosa.
Quando papà andò in pensione, lui e la mamma tornavano spesso al paese e ci restavano per diversi mesi all'anno; laggiù ripresero il vecchio modo di vivere. Mamma ci lasciò nel '79 a San Giorgio per un attacco di cuore; fu portata a Bologna e seppellita al cimitero di Borgo Panigale. Papà è vissuto dieci anni di più, quando morì aveva ottantatré anni. Nella vecchiaia si spostava in continuazione tra Bologna e Benevento dividendosi tra l'amore per la sua terra d'origine e quello per i suoi figli tutti residenti a Bologna; andava tutti i giorni a trovare la sua compagna e, presso la lapide del cimitero, bussava tre volte contro il marmo per comunicarle che era arrivato.
Vorrei concludere questa mia piccola storia con una poesia che è un invito alla tolleranza e anche un omaggio al luogo dove sono nato e a quello che mi ha accolto:
Omaggio a San Giorgio del Sannio e a Bologna
Quando non sentirete più il mio respiro vorrei essere seppellito sotto l’antica quercia piegata che mi ha visto nascere
e quando butterete sul mio corpo la terra vorrei sentire il canto dei morti che gli antichi avi portarono dal freddo.
Dopo sentirò il fruscio leggero dell' acqua pura che scende dal fosso
e il sole forte e sicuro scalderà tanto la terra che mi farà sentire il suo calore.
Gald, il primo antenato che scelse questa terra calda, mi sarà riconoscente.
E Alma, la sannita che si accoppiò con lui e generò tutti noi mi porterà dove ebbe origine la sua stirpe
lassù nei prati alti dove il cielo si congiunge con la terra.
Stretti nei pugni vorrei la terra grassa e una spiga di grano
raccolti a cinquemila passi dal luogo dove il fiume Reno inizia la pianura e se guardi le colline le vedi color blu.
Lettera a papà morente
Casalecchio di Reno, 31 luglio 1989
Caro Papà,
in queste tue ore d'agonia penso a tutte le cose che mi ricordano te, i ricordi vanno dall'infanzia quando torna¬vi nella casa di Cesine in permesso da Bologna fino alla volta in cui mi venisti a trovare a Torino, mentre ero ricoverato durante il servizio di leva all' ospedale milita¬re.
Spesso ho sentito la tua mancanza, sei sempre stato un uomo chiuso e verso i tuoi figli non ti sei mai lasciato andare a tenerezze, anche ultimamente, quando avresti avuto bisogno di affetto, hai mantenuto un atteggiamen¬to chiuso e riservato. Ciò che mi ha sempre colpito di te è quel tuo grande orgoglio, la grande forza di carattere e la voglia di vivere.
Tu avresti voluto vedere l'alba del duemila. Non è detto che non l'avresti vista se non ti avesse colpito quella terribile malattia. Spesso verso di te ho avuto un atteg¬giamento d'invidia e di ammirazione, io così emotivo, e tu così forte e pieno di vita nonostante l'età e la mancanza della mamma.
Se mi sarà permesso metterò nella tua giacca un piccolo cuore di terracotta che ho scolpito questa matti¬na, sopra ho inciso una colomba in volo con in bocca un ramoscello d'ulivo per simboleggiare la pace e la serenità che raggiungerai quando finirai di soffrire. In questo cuore c'è un piccolo contenitore con dentro, oltre questa lettera, un po' di terra che ho raccolto ieri negli scavi presso la tangenziale a Casalecchio di Reno, dove hanno trovato un insediamento romano. Con questa terra piena di tracce di uomini di duemila anni fa mi sembra di rendere eterna la tua vita, l'uomo non muore mai anche se le apparenze sembrano dimo¬strare il contrario. Quando vado in mezzo a questi scavi mi sembra di tornare ad allora e sentire la presenza di quel popolo antico.
Caro papà tu hai avuto tanti figli e nipoti, il tuo sangue e la tua razza non si estingueranno mai. Tra qualche generazione ci sarà tra i tuoi discendenti un uomo o una donna scontroso, orgoglioso e forte che probabilmente, senza avere nemmeno memoria di te, avrà inciso il tuo carattere che è un inno alla vita. Ciao, papà.
Una canzone per mio nipote Christian morto in moto, investito da un automobilista il 6 ottobre del 1990 a 18 anni.
Cavaliere sannita Cavaliere moderno
Sapevi chi erano e quel che cercavano
arrivavano dal fiume i nemici di sempre
la donna e la terra ti volevan strappare.
Battaglia tremenda non ti ha perdonato
la lancia spezzata e la spada caduta.
Lo sguardo feroce al nemico vincente
e un pensiero d'amore al tuo mondo che andava
Ti hanno sconfitto cavaliere sannita
ma la vita si rischia per quel che si ama.
Cavaliere moderno eri giovane e bello
in quel giorno di ottobre un suono alla porta
ignaro l'amico ti portava a morire
Il sole e la luce andavate a cercare.
Il sole e la luce andavate a cercare.
Il cavallo di ferro era docile e calmo
amavi sentire il vento sul corpo.
Senza armi, indifeso non avevi nemici.
Bianca di zinco ti stava cercando
era lucida e fredda quando ti è apparsa
la difesa non c'era e la fuga nemmeno
si avventa ti prende e ti scaglia lontano.
L'asfalto e poi nulla e poi nulla
e poi nulla e poi nulla.
Eri in guerra ma il nemico chi era?
Il sorriso forzato e patinato?
Chi porta l'abito firmato?
Il tempo veloce e impazzito?
Cavaliere moderno chi era il nemico?
Un pensiero per mamma e per la mia compagna
Madre.
Donna.
Dài 1'amore.
Il più profondo.
Donna del sud
Quanto hai pianto Donna del Sud
con gli occhi scuri della Magna Grecia
e quelli chiari ereditati da Normanni e Longobardi.
Hai disperso le tue lacrime in tutti i continenti
sei stata ovunque vicina al tuo uomo
raccogliendo il suo sfogo e la sua nostalgia
anche tu sognavi il ritorno
e da sola piangevi per non dar dispiacere.
Non è ancora luce quando vado al lavoro
sono fermo incolonnato in tangenziale
e ti penso commosso come madre e compagna.
Presto raccoglieremo le tue lacrime
le porteremo dove sei nata
torneremo laggiù in processione
e orgogliosi in milioni di discendenti ti onoreremo.
Al razzista
Tu non hai provato cosa vuol dire essere emigrante
non hai provato a sentir la nostalgia
e un brivido per un accento che riconosci familiare.
In ogni luogo della terra siamo stati schiavi
con i sesterzi guadagnati col sudore
abbiamo riscattato i nostri figli.
Non riesci più a distinguerci
e a distinguerti e questo ti spaventa
Faremo di tutto per tener unita questa Italia
che nacque in tempi remoti
nei cuori di un piccolo popolo in fondo allo Stivale.
In Suo nome s'immolarono gli Etruschi e i Sanniti
i Patrioti del Risorgimento, i Contadini lombardi, emiliani e salentini nella Grande Guerra
e i Partigiani con la Resistenza per scacciare l’occupante
Cento milioni d’Italiani sparsi per il mondo riconoscono questa terra come Patria.
Ci appartiene uno dei tuoi figli uomo della divisione.
Sarai deriso barbaro con solo l’oro nel cervello
non saremo mai razzista contro il tuo razzismo
nelle nostre vene scorre il sangue di tutti i popoli europei
anche del tuo che tanto ci disprezzi.
Non voglio più essere italiano
Non voglio più essere italiano
diventerò padano poi...
emiliano
bolognese
di Borgo Panigale
di via del Milliario
del numero 7
della porta di destra del primo piano
non voglio più essere italiano.
Considerazioni sul razzismo
Il vero razzismo si manifesta in un modo molto sottile e insidioso; non è quello stupido e anche abbastanza raro di chi dice che il diverso è sporco, o che porta via il lavoro. Ma è quello insopportabile nelle piccole cose di tutti i giorni; quando alzi il tono di voce per una situazio¬ne che ti dà fastidio o ancora quando accentui qualche aspetto del tuo carattere, quando nascondi la tua timi¬dezza con atteggiamenti un po' arroganti, ecco allora che sei diverso, che sei così non per il tuo carattere, ma perché provieni da un altro luogo.
Come se i locali fossero tutti degli automi con le stesse emozioni e atteggiamenti. In conclusione il vero razzismo emerge quando tu che sei forestiero esci dai quegli schemi comportamentali standard che dai locali sono tollerati e capiti.
L’amata zia Arcangela che tanto ci ricordava la mamma è morta all’età di 102 anni. Nel festeggiare il suo centesimo compleanno nel maggio 2008 feci una pergamena ricordo che riproducevano due vecchi angeli scolpiti da distribuire a tutti fratelli; sopra alla pergamena anche una poesia.
Zia Arcangela compie cent’anni
I suoi occhi, la sua mitezza e il suo sorriso
come gocce di rugiada ricordano la mamma
Zia Arcangela ama i fiori
Come la mamma parla con piante e animali
il suo giardino è un’esplosione di colori
sembra dipinto da Antonio Ligabue
O da un’Angela che ha visto il Paradiso
Quando la vedo la dolcezza dei ricordi mi riempie il cuore di rimpianti e di nostalgia
Cara zia Arcangela
Auguri di altri cent’anni ancora insieme a noi
I discendenti
Discendenti di Soricelli Giovanni e Iadanza Adelina
Antonio e le figlie Ada, Tina, Grazia, Valentina
Pina e le figlie Lucia e Cristina
Saverio e i figli Stefania e Giovanni
Carmine senza eredi
Dante e i figli Fabio e Alessio
Emilia e i figli Carlo e Simona
Carlo e i figli Elisa e Lorenzo
Teresa e le figlie Daniela e Barbara
Pia e i figli Christian e Luca
Angelo e Federica figli di Ada
Alessio, figlio di Tina
Nel corso di questi 15 anni anni sono nati tantissimi altri discendenti di Giovanni e Adelina
Un altro figlio a Tina
I figli di Grazia e Valentina
Di Stefania e Giovanni
Di Daniela e Barbara
A mia figlia Elisa sono nati Davide e Gloria
Postfazione
Per ammissione dello stesso autore, la spinta che lo ha convinto a mettersi a scrivere di getto è stato un senso come di rivolta contro le pretese secessioniste della lega di Bossi. Pretese di una minoranza che - come osserva Soricelli - non hanno "nessun valore giuridico e mora¬le", e tuttavia stanno "generando un clima di incom¬prensione.”
Questo gradevole racconto dell'esperienza di un bam¬bino venuto dal sud a Bologna nei primi anni Cinquan¬ta, alle prese con tutti i problemi di una difficile integra¬zione, colpisce anzitutto per il garbo e la dolcezza con cui l'autore ricorda il suo passato. E io credo che ciò non derivi unicamente dal rimpianto per gli anni della fanciullezza; si può anche intuire che in complesso il clima generale nella Bologna di quegli anni non fosse di aspra ostilità nei confronti dei nuovi cittadini venuti dal sud.
Lo stesso autore del resto riconosce apertamente alla nostra città doti di apertura. Tuttavia, oggi come e forse più di allora, di fronte al tema della convivenza civile non bisogna mai abbassare la guardia, mai sentirsi pa¬ghi di una tradizione che va continuamente rinnovata e riaffermata nel nostro impegno quotidiano.
Di questo libro Pupi Avati, nella sua affettuosa prefazione, dà una chiave di lettura intimistica, come si conviene ad un artista, e propriamente all' artista Avati. Quanto a me vorrei proporne un'altra, anzi altre due, che mi sembrano altrettanto significative. La prima corrisponde a un desiderio esplicitamente formulato da Carlo Soricelli: "Sarei felice - scrive – che questa fosse considerata anche una piccola storia bolo¬gnese. Ebbene, la consideriamo davvero tale, e lo dico nella convinzione comune che Bologna sarebbe oggi una cit-tà molto diversa da quella che è, se tante persone venu-te da fuori non avessero dato il loro contributo origina-le al suo sviluppo. E se, nel farlo, non avessero assorbito parte dei nostri costumi, pur senza smarrire la propria identità.
Questo ci porta direttamente alla seconda chiave di lettura, importantissima, perché ci proietta nel futuro. Un futuro che in realtà è già cominciato e con il quale ci troviamo a misurarci ogni giorno, a Bologna, in Italia, come in tutti i Paesi del mondo occidentale.
Il problema dell'integrazione ha assunto oggi conno¬tati diversi: non più solo nord e sud di uno stesso Paese, ma nord e sud del mondo si trovano a dover sperimen¬tare una possibile convivenza. Si tratta di una sfida cul¬turale epocale, dalla quale possiamo uscire più ricchi grazie ad uno spirito pubblico orientato alla solidarietà, e anche alla curiosità, all' attenzione.
"Spero che domani un bimbo albanese, arabo, afri-cano, filippino o pakistano possa scrivere una storia come la mia e conservare del luogo che lo ha accolto i miei stessi bei ricordi" si augura Carlo Soricelli.
Lo spero anch'io, davvero.
Walter Vitali
Sindaco di Bologna
gennaio 1997
Il Sindaco di Bologna Walter Vitali è oggi Senatore della Repubblica Italiana
Carlo Soricelli nasce a San Giorgio del Sannio in provincia di Benevento ed all'età di quattro anni si trasferisce a Bologna con la sua famiglia.
Nella tarda adolescenza Soricelli comincia a produrre i primi quadri in cui si nota un forte interesse per le problematiche legate all'ecologia ed una grande attrazione nei confronti della natura; lo si vede negli animali che ripropone spesso e negli alberi morenti che assumono sembianze umane. Fin d'allora l'arte di Soricelli è di denuncia nei confronti di una società che sta progredendo alle spese dell'equilibrio ambientale e della giustizia sociale. Nei primi anni Settanta i soggetti delle opere diventano soprattutto figure umane legate al mondo dell'emarginazione, accattoni, raccoglitori di cartone, handicappati, anziani, ma anche lavoratori ed operai che incontra ogni giorno sul posto di lavoro. Nelle sue tele ci scontriamo con visi stanchi ed abbruttiti, solcati dalla sofferenza e dalla solitudine, con corpi pesanti che non hanno niente del bello classico, cromatismi scuri di nero, marrone, blu, mai decorativi. Non c'è speranza, né si allude a qualche possibilità di riscatto, ma troviamo una costante messa in visione di tutto ciò che normalmente siamo portati ad evitare perché disturbante. Questa pittura, che giunge immediata ed essenziale, è spesso associata al filone dell'arte Naïve, quella di grandi come Ligabue, Covili, Ghizzardi. Infatti, a partire dall'84, Soricelli inizia ad esporre alla Rassegna di Arti Naïves ospitata presso il Museo Nazionale "Cesare Zavattini" di Luzzara a Reggio Emilia, dove riceve vari riconoscimenti tra cui il titolo di Maestro.
All'inizio degli anni Ottanta l'artista bolognese realizza le prime opere di scultura, ulteriore ed efficace veicolo espressivo del suo messaggio; è del 1985 “Il Consumista”, scultura emblematica in cui una creatura umana mostruosa, vestita di ritagli di spot e slogan pubblicitari, sta divorando se stesso ed ancora, del 1989, Il Comunicatore, ironica e brutale visione Orwelliana che anticipa l’avvento del berlusconismo. Già dai primi anni Ottanta Soricelli propone il tema degli angeli e lo elabora a suo modo; l'angelo è l'escluso, prima schiacciato e deformato, ora alleggerito da un paio d'ali che garantiscono una dignitosa speranza, non tanto con l'intento di avvicinare al sovrannaturale, ma al contrario per riportare l'esistenza ad un'unica dimensione Umana. Da quindici anni Soricelli sta lavorando a quella da lui definita Arte Pranica, che consiste nella visualizzazione dell'energia comune a tutti gli esseri viventi allo scopo di produrre effetti benefici per mente e corpo dell’osservatore, attraverso l'uso di colori accesi e caldi. Un'importante opera di pittura, in cui Soricelli si ritrae nelle vesti di cavaliere pranico, è stata acquistata dal Museo Zavattini. Soricelli espone dal 1976 con circa una sessantina di mostre, tra cui quelle al Palazzo Re Enzo di Bologna nel 1986, alla Festa Nazionale dell'Unità di Reggio Emilia con una personale insieme a Cesare Zavattini nel 1995 e presso Palazzo d'Accursio a Bologna nel 1996. Ha esposto con prestigiose mostre in Francia, Germania, Unione Sovietica, Grecia e Jugoslavia.
Nel 1997 ha pubblicato questo libro con prefazione di Pupi Avati, in cui ha raccontato le sue esperienze di bambino meridionale emigrato al Nord negli anni Cinquanta. Nel 2001 ha pubblicato il suo secondo libro “Il Pitto” con prefazione di Maria Falcone. Il terzo “Pensieri liberi e sfusi”, il quarto ”Terramare” e il quinto “Porta Collina, l’ultima battaglia dei Sanniti”. Il sesto “La classe operaia è andata all’inferno” con lettera d’apprezzamento del Presidente Giorgio Napolitano e prefazione di Bruno Papignani Segretario Generale della FIOM di Bologna. Carlo Soricelli è l’ideatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna sulle morti per infortunio sul lavoro http://cadutisullavoro.blogspot.com. dove sono ricordati e monitorati tutti i morti sui luoghi di lavoro dal 1 gennaio 2008 in ricordo dei sette operai della Thyssen morti così tragicamente il 6 dicembre 2007 a Torino. A Casa Trogoni di Granaglione, in provincia di Bologna ha aperto una Casa Museo con le sue opere di pittura e scultura che è possibile visitare su appuntamento.
Per molti anni della mia adolescenza ebbi come compa-gno del cuore un ragazzino meridionale, un maruchèin come Carlo Soricelli.
Ho ritrovato quindi, fin dalle prime pagine di questo libro, l'intensa emozione di chi si sente risucchiato in un mondo che riconosce nei suoi più minuti e spesso non edificanti aspetti.
Ho esperienza diretta di quanto fosse intrisa di razzi¬smo, di prevenzione, la cultura di una città pur evoluta come la nostra. Un tipo di diffidenza sottile, mai del tutto esplicitata ma che permeava di sé tutti i rapporti.
Negli ultimi decenni fortunatamente tutta la nostra società civile ha compiuto un grande passo in avanti lasciandosi alle spalle quell'orrendo pregiudizio. Fino alle follie leghiste di questi ultimi tempi ...
Giunge quindi in qualche modo puntuale questa testimonianza di Soricelli che racconta di sé, dall'interno quindi di un'esperienza totalmente soggettiva, che de¬scrive con puntigliosa fedeltà il suo approccio di adole¬scente meridionale alla nostra cultura.
Pupi Avati
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